Kapo’
di Gillo Pontecorvo
(1959 FRA 102’)
con Emmanuelle Riva, Didi Perego, Susan Strasberg,
Laurent Terzieff, Gianni Garko, Paola Pitagora, Graziella Galvani.
Scritto dal regista con Franco Solinas dopo che avevano letto "Se questo è un uomo" di Primo Levi, Kapo’ è una parabola drammatica che, a soli 15 anni di distanza dall’orrore dell’olocausto, ha il pregio di ricostruire e riportare davanti alla troppo labile memoria degli uomini un mondo che è di sterminio, la forza di mostrare non solo la distruzione fisica ma anche la degradazione morale a cui la follia umana può portare.
La storia è quella di una giovanissima prigioniera ebrea in un lager nazista, fragile creatura immessa di colpo in un’atmosfera apocalittica, che si schiera per sopravvivere dalla parte dei nemici e accetta di diventare kapo’, cioè guardiana-aguzzina delle altre recluse. Tale è l’abiezione a cui può arrivare una creatura umana per colpa del terrore, della paura, della fame e della miseria. Un punto di non ritorno: la sopravvivenza solo a patto della trasformazione.
Nel 1959 una tale protagonista era inconsueta e già di per sé spiazzante, quello dei collaborazionisti un tema a quei tempi rimosso. Inoltre il film di Pontecorvo ha un altro pregio quando sottolinea come esemplare non la forza morale e la resistenza della protagonista (operazione tipica dei film hollywoodiani pieni di eroi integerrimi), ma la sua debolezza e la sua fallacia, tutt’uno con la sua innocenza e il suo candore.
Ovviamente è un film e costa molti soldi alla produzione, per cui ha una doppia anima artistica e commerciale insieme, da questa convivenza derivano l’aspetto documentaristico duro e rigoroso da una parte e le concessioni al pubblico per rendere il film più digeribile dall’altra.
Proprio per questo motivo gli si perdona, in alcune parti, un eccesso di sentimentalismo, che senz’altro ha aiutato il film ad arrivare e a colpire l’immaginario del pubblico, tanto che il termine kapo’ è diventato di uso comune.
Il problema del linguaggio è sempre cruciale, specie se si ha un obiettivo di denuncia.
Il pervicace tentativo del regista di coniugare ideologia e spettacolo nei suoi film ha sempre irritato non poco la critica, non generosa con i suoi film (fatta eccezione per "La battaglia di Algeri", ma come si potrebbe stroncarlo?).
A questo proposito "Kapo’" ha dato origine ad una violenta stroncatura da parte di Jacques Rivette (Cahiers du Cinéma n. 120, giugno 1961), famoso esponente della Nouvelle Vague, che bollò il film come abietto scrivendo: “Guardate l’inquadratura in cui Emmanuelle Riva si toglie la vita, gettandosi sul filo spinato ad alta tensione: l’uomo che decide, a questo punto, di fare un carrello in avanti per inquadrare il cadavere dal basso verso l’alto, avendo cura di porre la mano alzata esattamente in un angolo dell’inquadratura, ebbene quest’uomo merita solo il più profondo disprezzo”.
La critica e il cinema della “nouvelle vague” sapevano essere spietati, nel mettere al centro una “moralità dello sguardo” assoluta, dove anche un movimento della macchina da presa aveva sempre un senso, una ragione. La scelta del punto di vista non è mai casuale, e Rivette e la Nouvelle Vague di Godard, Truffaut, Rohmer e compagni lo gridavano forte.
Attualmente un’etica dello sguardo così pura fa quasi sorridere, assuefatti come siamo a spietate immagini televisive che non conoscono il rispetto per la morte altrui, ma anzi vanno a cercare i particolari morbosi in nome di un’enigmatica audience e di un pubblico sempre più imbarbarito.
Concludendo il carrello in avanti è sicuramente un errore, ma il film è in ogni caso da vedere giacché si pone come memoria di questa degradazione umana diventando un monito e al contempo un’esecrazione e condanna al nazi-fascismo. Perenne.
20/11/07
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