31/08/08

Banditi a Orgosolo

Banditi a Orgosolo
di Vittorio De Seta
(1961 ITA 98')

Scorsese parlando delle vette del cinema italiano ha fatto il nome di De Seta, il giornalista pensando di aver capito male ha precisato De Sica e Scorsese ha ribadito De Seta. Siamo d'accordo anche noi e questo film lo dimostra. "Banditi a Orgosolo" fu girato tutto in esterni, al contatto vivo con la realtà sarda, lontano da ogni filtro mediatore e senza schemi preordinati. De Seta fu contemporaneamente regista, operatore, montatore e arrangiatore del commento musicale. Non vi fu una sceneggiatura prestabilita, agli attori, tutti sardi, venivano spiegate in estemporanea le battute che avrebbero dovuto dire di lì a poco, "poiché lo sforzo mnemonico provocava imbarazzi e incertezza", esortandoli poi a trovare le parole adatte nel loro dialetto. Il tema centrale del film è l'impossibilità di un' "ordine" statale in quelle zone dove la struttura socio-culturale ed economica era, come disse lo stesso regista nel prologo del film, "diversa", impossibilità cui corrispondeva il tentativo del singolo individuo di risolvere, sia pure con la forza, quei problemi di giustizia a cui lo Stato non poteva dare una soluzione.

28/08/08

Night on Bald Mountain

Night on Bald Mountain
estratto da Walt Disney's Fantasia
di Wilfred Jackson (1940 USA 120')
Musica di Modest Mussorgsky rielaborata da Leopold Stokowsky.
Arrangiamento orchestrale di Maurice Ravel.

24/08/08

Itaca

Itaca

Quando ti metterai in viaggio per Itaca
devi augurarti che la strada sia lunga
fertile in avventure e in esperienze.
I Lestrigoni e i Ciclopi
o la furia di Nettuno non temere,
non sarà questo il genere d'incontri
se il pensiero resta alto e il sentimento
fermo guida il tuo spirito e il tuo corpo.
In Ciclopi e Lestrigoni, no certo
né nell'irato Nettuno incapperai
se non li porti dentro
se l'anima non te li mette contro.

Devi augurarti che la strada sia lunga
che i mattini d'estate siano tanti
quando nei porti - finalmente e con che gioia -
toccherai terra tu per la prima volta:
negli empori fenici indugia e acquista
madreperle coralli ebano e ambre
tutta merce fina, anche aromi
penetranti d'ogni sorta, più aromi
inebrianti che puoi,
va in molte città egizie
impara una quantità di cose dai dotti.

Sempre devi avere in mente Itaca
- raggiungerla sia il pensiero costante.
Soprattutto, non affrettare il viaggio;
fa che duri a lungo, per anni, e che da vecchio
metta piede sull'isola, tu, ricco
dei tesori accumulati per strada
senza aspettarti ricchezze da Itaca.

Itaca ti ha dato il bel viaggio,
senza di lei mai ti saresti messo
in viaggio: che cos'altro ti aspetti?

E se la trovi povera, non per questo Itaca ti avrà deluso.
Fatto ormai savio, con tutta la tua esperienza addosso
già tu avrai capito ciò che Itaca vuole significare.
(Kostantinos Kavafis)

22/08/08

Carlo Mollino

Carlo Mollino

Sentito omaggio a Carlo Mollino, artista torinese poliedrico e spiazzante (1905-1973), famoso per la sua attività di architetto, impostata sulle orme delle opere di Alvar Aalto ed Eric Mendelsohn, che lo ha portato a creare il nuovo Teatro Regio di Torino, che Mollino stesso definì come ispirato ad "una forma intermedia tra l'uovo e l'ostrica semiaperta". Mollino ha fatto della trasgressione il filo conduttore della sua arte e dei suoi interessi. La sua attività ha spaziato in numerosi campi tra cui disegno, architettura, progettazione d'interni, fotografia erotica, occultismo e creazione di auto da corsa. E' stato spericolato sciatore (creando anche particolari tecniche sciistiche), eclettico scrittore, pilota d'aereo acrobatico e di auto da corsa e soprattutto memorabile fotografo erotico. Numerosi i suoi libri che spaziano dalla narrativa all'architettura, dalla tecnica sciistica alla critica fotografica (uno per tutti "Messaggio dalla Camera Oscura"). Figura complessa e affascinante, Mollino fu un genio ai limiti della follia, estremamente avaro, ossessionato dalle tasse, maniaco del sesso e, si dice, sperimentatore di sostanze. Ha sempre rifiutato di lavorare per la grande industria, preferendo dedicarsi alla creazioni di mobili pezzi unici e alle sue ardite sperimentazioni fotografiche con accondiscendenti fanciulle. Sperimentazioni create furbescamente nel suo splendido appartamento con una Leica e successivamente modificate con l'uso di un pennellino, in modo da raggiungere l'ideale di bellezza femminile, che l'artista aveva in mente. Fotografie ammalianti e magicamente surreali, le polaroid di Mollino sono affascinanti ritratti femminili realizzati tra gli anni Sessanta e il 1973 , anno dell'improvvisa morte. Altra sua grande passione fu quella per l'automobilismo e la velocità, sia come pilota semi-professionista, che come progettista e disegnatore di bolidi innovativi, come il Bisiluro che partecipò nel 1955 alla 24 Ore di Le Mans, sempre inseguendo il mito del superamento del "record".
A quando un documentario su di lui?

21/08/08

Ray Harryhausen

Ray Harryhausen

La mia passione per il cinema ha un'origine: era il 1981 e mi portarono a vedere il film "Scontro di Titani", rimasi senza parole e non per Ursula Andress o Laurence Olivier, ma per la Medusa e il Kraken...nei successivi tre/quattro anni rividi il film altre 11 volte rincorrendolo al cinema e in TV, impresa non da poco visto che eravamo in epoca pre-VHS...nel 1983 vidi in sala "Blade Runner" e il sottilmente erotico "I paladini" e da allora sono permeato incurabilmente dalla magnifica ossessione, ma questa è un'altra storia...Scontro di Titani mi colpì veramente profondamente e solo successivamente scoprì l'autore delle affascinanti e sconvolgenti creature animate in stop-motion del film: Ray Harryhausen. Per stop-motion, per chi non lo sapesse, si intende una tecnica di animazione tridimensionale creata mediante la manipolazione di pupazzi e modellini inanimati, dei quali si riprende progressivamente ogni singola posizione, creando in questo modo l'illusione del movimento. Nato nel 1920 e tuttora vivente (che si aspetta a fare una retrospettiva completa?), Harryhausen è uno dei geni assoluti che ha avuto il cinema fantastico e le sue creature, volenti o nolenti, hanno inciso indelebilmente il nostro immaginario. Insieme al suo maestro e ispiratore Willis O'Brien, autore degli effetti speciali del "King Kong" del 1933, Harryhausen è stato uno dei più grandi animatori che hanno utilizzato la tecnica stop-motion, da lui battezzata "kinetic sculpture" e animata in "dynamation". All'inizio della sua carriera Ray si getta anima e corpo in un mastodontico progetto, dal titolo "Evolution", incentrato sul mondo preistorico e l'origine delle specie. Grazie alle sue realizzazioni per quest'opera incompiuta, viene assoldato da George Pal per contribuire alla realizzazione del serial "Puppettoons". In seguito si arruola in guerra nella "Army Motion Picture Unit", sotto la direzione di Frank Capra, dove può affinare la tecnica cinematografica. Nel 1949 arriva la grande occasione di collaborare con il suo maestro O'Brien (si erano conosciuti grazie a sua nipote che era compagna di classe di Ray) alla realizzazione de "Il re dell'Africa" di E.B. Schoedsack, di cui cura personalmente l'85% degli effetti speciali, tra i quali merita di essere ricordata una notevole sequenza di lotta tra il gigantesco gorilla e i cowboys. Per il film O'Brien vince l'Oscar. Ray collabora poi con O'Brien per il film "Valley of Mist", che non verrà però portato a termine per problemi produttivi. Negli anni Cinquanta inizia una straordinaria collaborazione con il produttore Charles H.Schneer (tredici film insieme), che lo porta a realizzare in stop-motion creature fantastiche pressoché perfette (le vediamo nel filmato in fondo al post), con la straordinaria capacità di fare interagire realisticamente i suoi mostri con i personaggi in carne e ossa, riuscendo così a dare vita alle nostre fantasie archetipiche.

I film in questione sono "Il risveglio del dinosauro" di Eugène Lourié (1953) basato su un racconto dell'amico Ray Bradbury, "Il mostro dei mari" di Robert Gordon (1955), "La terra contro i dischi volanti" di Fred F. Sears (1956), "A 30 milioni di Km dalla terra" di Nathan Juran (1957) con la lotta tra il mostro e un elefante, "Il settimo viaggio di Sinbad" sempre di Juran (1958), "I viaggi di Gulliver" di Jack Sher (1960), "L'isola misteriosa" di Cy Endfield (1961) e successivamente "Gli Argonauti" di Don Chaffey (1963) con la psicotronica battaglia tra gli attori e un gruppo di scheletri (oltre quattro mesi di lavoro per realizzarla). Non dimentichiamoci poi che "Il Risveglio del Dinosauro" è il film che ha portato Ishiro Honda e Tomouki Tanaka a realizzare niente meno che "Godzilla" (1954), grazie al finanziamento degli studi TOHO in Giappone. Successivamente Harryhausen si dedica a "Base Luna chiama Terra" di Nathan Juran (1964), film ispirato ad un romanzo di H.G. Wells. Poi collabora con la mitica Hammer, realizzando i dinosauri per "Un milione di anni fa" di Don Chaffey (1966) e va detto che gli spettatori rimangono più impressionati dalle creature di Ray, che dal corpo mozzafiato di Raquel Welch. I dinosauri sono la sua ossessione e per questo firma anche quelli di "La vendetta dei Gwangi" di Jim O'Connolly (1969), che era in realtà un suo progetto personale in cantiere da svariati anni.
Negli anni Settanta torna a creare personaggi per film mitologici come "Il viaggio fantastico di Sinbad" (1974) (con la dea Kali a 6 braccia e tante altre incredibili creature) e "Sinbad e l'occhio della tigre" (1977). I tempi e il pubblico stanno cambiando e viene il momento di congedarsi, ma bisogna farlo lasciando una traccia e il suo ultimo film "Scontro di Titani", grazie alle sue fantastiche invenzioni, ci riesce sicuramente. Nel 1992, finalmente, gli viene assegnato un Oscar alla carriera. Nel 2006 viene pubblicato l'imperdibile libro "The Art of Ray Harryhausen".

"Fai apparire quello che senza di te forse non sarebbe mai stato visto" (Robert Bresson)

20/08/08

Eegah!

Eegah!
di Arch Hall Sr. (1962 USA 90')

19/08/08

Nella Mia Pelle

Nella mia pelle - Dans Ma Peau
di Marina De Van
(2002 FRA 93')
con Marina De Van, Laurent Lucas, Léa Drucker

Disturbante viaggio al termine della notte, capace di indagare gli anfratti più reconditi della nostra identità, Nella Mia Pelle viene così a configurarsi come uno dei film più interessanti degli ultimi anni. Un film che mostra come l'essere umano sia sempre alla ricerca di sé, spesso attraversando una matassa aggrovigliata di cui gli sfuggono i bandoli, ma alla quale non dispera mai di riuscire a dare un senso compiuto. Purtroppo però non gli è mai dato conoscere per intero la propria verità, ma ne può cogliere soltanto singoli frammenti, disseminati nella miriade di situazioni in cui gli capita di trovarsi.
Il film è incentrato su Esther, una trentenne dalla vita normale e rettilinea, che riceve una promozione sul lavoro e ha una relazione amorosa stabile con un ragazzo che sembra volerla sposare. Ma ad un certo punto accade l'inatteso, la giovane esce nel giardino di una villa, durante una festa tra amici, e attraversando un cantiere si procura, senza accorgersene, una brutta ferita lacero-contusa ad una gamba. Rientrata nella buia festa continua a ballare sfrenatamente per tutta la sera, apparentemente non provando alcun dolore. Successivamente si accorge della ferita e il contatto col proprio corpo ferito e sanguinante fa probabilmente riaffiorare un trauma, che nel film non è mai esplicitato, ma che brucia incandescente nella sua anima. Da questo momento Esther sviluppa un'irresistibile attrazione per le proprie ferite: le riapre, se ne infligge di nuove e trova in tutto questo un motivo di sollievo, che le consente evidentemente di liberarsi di tensioni insopportabili che minacciano di disintegrare la sua identità. Nel film Marina De Van si mette in gioco totalmente, interpretando la protagonista, scrivendone la sceneggiatura e curandone la regia. Il suo film è glaciale, senza spiegazioni né giudizi morali, ben lontano dal pregiudizio che solitamente stigmatizza l'atto di ledersi il corpo, ascrivendolo (senza neppure analizzarlo) al versante della follia o del masochismo. Sono rimasto di stucco quando ho aperto i miei testi di psichiatria e non ho trovato neanche una riga sul fenomeno delle ferite autoinflitte. Nella nostra psichiatria le lesioni corporali autoinflitte continuano a essere considerate semplici anomalie, assai poco studiate nelle loro caratteristiche specifiche. Forse perché nelle società europee il rispetto dell'integrità del corpo continua ad essere un principio intoccabile e la deliberata lesione del proprio corpo mette spaventosamente a disagio (è la sensazione che ho provato anch'io a fine del film). Nella pratica quotidiana invece capita spesso di imbattersi in ragazze che si spengono mozziconi sulle braccia o si tagliuzzano la pelle. I casi che vengono a contatto con il medico sono però casi in cui si è già scivolati nella psicosi. Sfuggono invece tutti quei casi di donne (solitamente) perfettamente inserite nella vita sociale, che vi fanno ricorso come a una forma di regolazione delle proprie tensioni, quasi fosse una particolare forma di lotta contro il male di vivere. E nessuno sospetta, nessuno sa che si comportano così, anche perché chi lo fa solitamente se ne vergogna. Il fenomeno è in costante aumento e sembra che negli Stati Uniti, dove al tema sono state dedicate numerose ricerche, vi siano circa tre milioni di persone, soprattutto donne, che ricorrono a lesioni corporali autoinflitte. Ma perché lo fanno? Bisogna riuscire a capire perché, in situazione di grande sofferenza, si ricorre al corpo come a una sorta di ultima risorsa probabilmente per non scomparire. A questo proposito gli scritti dell'antropologo e sociologo David Le Breton sono illuminanti. Secondo i suoi studi la condizione umana è corporea, ma il rapporto con l'incarnazione non è mai risolto del tutto. Ferirsi non è mai frutto di un agire irriflesso, anche se ha in sé qualcosa dell'impulso; serve a scaricare una tensione, un'angoscia che non lascia più alcuna scelta, nessun'altra risorsa e di cui l'individuo deve potersi liberare in qualche modo. L'incisione è una risposta inconscia ma potente al senso di caos che minaccia di trascinar via ogni cosa. Per continuare a esistere e lottare contro lo smarrimento, queste persone ricorrono a un mezzo che probabilmente agli occhi degli altri non è il migliore, ma per loro è il solo mezzo che funziona. Le lesioni del corpo sono una forma di sacrificio: l'individuo accetta di separarsi da una parte di sé per salvare così la totalità della propria esistenza. La posta in gioco, insomma, sembra essere il non voler morire: sono ferite che creano l'identità, tentativi di accedere al sé più profondo, disfandosi del peggio. La traccia corporale porta la sofferenza in superficie, dove quest'ultima è visibile e controllabile, sradicandola da un'interiorità che sembra simile a un baratro. Le lesioni corporali sono come delle grida, urlate nella carne, a cui l'essere umano ricorre quando manca il linguaggio.
Parlando del film della De Van, Le Breton dice "Nella Mia Pelle si confronta con l'inquietante estraneità di essere uniti a una carne: innumerevoli scene del film mostrano questo processo di allontanamento e al tempo stesso ritorno a sé che si realizza grazie alla ferita - ossia mediante il rovesciamento della pelle, il richiamo all'interiorità materializzata dal sangue o dal dolore. Il suo compagno non è in grado di comprendere la sua tranquilla deriva. Il mondo le sfugge, scivola via fuori da lei. Vivere non le basta più, Esther ha perso il senso del reale e cerca di sentirsi esistere, ma lo fa pagandone il prezzo. Ed ecco che la scopriamo personaggio borderline, sul filo del rasoio in una realtà che lentamente le sfugge e non le lascia altre risorse se non quel corpo cui si aggrappa disperatamente: intagliandolo, facendolo sanguinare, persino divorandolo. Quando perde i limiti del suo mondo li cerca sul proprio corpo, ledendosi la pelle e facendone colare il sangue. Esther abbandona il legame sociale, le riesce difficile instaurare una sia pur minima relazione con gli altri; rifugiatasi in una camera d'hotel dove celebra riti di sangue col proprio corpo, finisce col tagliarsi il viso, simbolico congedo del mondo che ormai esprime chiaramente la gravità del suo stato. Nelle ultime scene del film la vediamo immobile, catatonica, su un letto."
L'incisione è per Esther, come per alcune ragazze dei nostri giorni, una cerimonia segreta, compiuta come una liturgia intima. Sono riti personali e privati che offrono risposte radicali alle domande sul valore dell'esistenza. La protagonista però, invece di trarne momentaneo sollievo, viene a dipendere dai tagli che si procura, proprio come alcuni dipendono dall'alcool o dalla droga: ad ogni evento doloroso vi fanno ritorno, alla disperata ricerca di una tregua. In una scena indimenticabile la giovane cerca di conservare un preciso rettangolo della propria pelle, informandosi da un farmacista su come poterla imbalsamare, per non perdere la piacevole sensazione tattile che le dà il contatto con la propria pelle. Psicanaliticamente gli sforzi della protagonista sono volti con ogni mezzo a cercare di scongiurare la sensazione di perdita narcisistica nel tentativo di ristabilire l'involucro narcisistico originario. Purtroppo ciò non le eviterà la discesa negli inferi dati dall'alienazione totale, non solo dal mondo che la circonda, ma addirittura dalla sua stessa corporeità. Certo è che una dimensione sociale e lavorativa che annienta la libertà personale e schiaccia l'individuo nei meccanismi di un ingranaggio (che vuole solamente efficienza, produzione e consumo) di certo non aiuta queste persone in difficoltà.
Lo scrittore Marco Belpoliti afferma che "l'automutilazione è diventata dopo il crollo delle ideologie del XX secolo la forma attraverso cui gli individui ridisegnano i confini del proprio corpo, rispetto agli altri, rispetto anche al corpo immaginario della madre, con cui continuano, nonostante tutto, a mantenere un rapporto simbiotico. Tatuaggio e piercing servono, a chi li pratica, ad assicurare che dentro il corpo, sotto la pelle, non c'è il vuoto, ma appunto qualcosa". Speriamo di salvarci la pelle...

“La vita umana è composta da due parti eterogenee, destinate a non congiungersi mai. L'una è provvista di senso, e questo senso sono le finalità utilitarie – di conseguenza subordinate: si tratta della parte che si manifesta alla coscienza. L'altra parte però è sovrana, e a volte si costituisce favorendo il disordine della prima: è la parte oscura – o piuttosto quando è chiara diviene accecante, in questo modo si nasconde con ogni mezzo alla coscienza.”
(Georges Bataille)

18/08/08

La Pelle

La Pelle

Buona parte dell'arte contemporanea è incentrata sulla pelle...la pelle è un'interfaccia tra esterno e interno, un prezioso punto di confine e di passaggio tra noi e il mondo. A livello embrionale nell'uomo la corteccia cerebrale si forma congiuntamente alla pelle e all'apparato genitale, proprio per questi motivi la formazione del soggetto psichico è inscindibile da quella del soggetto corporeo. E forse è per questo che la dermatologia molto spesso brancola nel buio, vedi orticarie, eczemi e svariate altre affezioni cutanee (etichettate come idiopatiche che è un modo forbito per dire che non ci si è capito nulla). Ma la pelle funziona anche da barriera, difendendo l'individuo dalle intrusioni esterne...ed infatti le zanzare stanno diventando uno dei nostri più temuti nemici. Ma, come sostiene Betti Marenko, la pelle è anche il luogo dove appaiono con più evidenza le esperienze compiute dagli individui, raccoglie e mostra le tracce visibili: rughe, marchi, cicatrici, calli, tatuaggi, perforazioni, iscrizioni, vuoti, volumi, curve, increspature...sono segni "che incarnano i residui del passaggio del mondo attraverso il corpo". Simile a un archivio, la pelle conserva le tracce della storia individuale. La sua consistenza, il colore, le cicatrici e le sue particolarità (nevi, voglie etc) disegnano un paesaggio unico. Ma ciò che complica notevolmente gli interventi terapeutici della nostra medicina è che la pelle incarna l'interiorità degli individui. Sulla superficie che ci fascia e ci delimita si manifestano infatti i segni dei sintomi psichici, dall'isteria alla santità, dei sentimenti e delle emozioni, delle malattie. E' uno specchio che ci mette irrimediabilmente a nudo, rendendo superficiale ciò che normalmente riteniamo profondo: pensieri, emozioni, sentimenti.

17/08/08

Tra Arte e Spazzatura c'è pochissima distanza

The Seahorse
opera di Hazel Bryce

Scultura creata con spazzatura e ritagli del Financial Times...oltre 6 anni di lavoro...
"Tra arte e spazzatura c'è pochissima distanza...la spazzatura che contiene un grano di follia è per questo più vicina all'arte"
(Douglas Sirk)

15/08/08

Voglio la testa di Garcia

Voglio la testa di Garcia (Bring Me the Head of Alfredo Garcia)
di Sam Peckinpah
(1974 MEX/USA 112')
con Warren Oates, Isela Vega, Emilio Fernandez, Gig Young, Kris Kristofferson

L'incipit è spiazzante (come tutto il film del resto): un ricco feudatario messicano, interpretato dal grande Emilio "Indio" Fernandez, urla, accecato dalla rabbia: "Bring me the head of Alfredo Garcia!" e arriva così ad offrire un milione di dollari a chi gli porterà la testa dell'uomo che gli ha impudentemente messo incinta la figlia. Per la ricerca dell'uomo si mette in moto un'organizzazione capillare e ultramoderna di cacciatori di taglie, che non può non far pensare alla CIA. Due minacciosi componenti dell'organizzazione, che si occupano di perlustrare i più sordidi anfratti del Messico, si imbattono in Bennie, un pianista americano alcolizzato, che lavora in un night-club di infima categoria. Bennie conosce Alfredo Garcia e quella che ora gli si presenta, probabilmente è la grande occasione della sua vita. Accecato dall'avidità per i diecimila dollari che i due gli promettono se gli porterà la testa di Alfredo Garcia, Bennie assicura il suo supporto alla caccia. Gli risulta infatti che la donna che frequenta, la prostituta messicana Elita (interpretata da una folgorante Isela Vega), è andata a letto recentemente con l'irresistibile Garcia. La donna sa che Garcia è morto in un incidente stradale ed è stato seppellito nel cimitero del suo villaggio d'origine. Il pianista e la prostituta decidono così di partire per recuperare la preziosa testa verso il paese in questione, situato nel sud del Messico. Bennie acquista un enorme machete ed un sacco di juta. Il viaggio viene ad essere l'occasione per piacevoli momenti tra i due, che si scambiano amorevoli promesse sul futuro, speranzosi di abbandonare per sempre il loro squallido mondo, intriso di solitudine e tristezza. Ma improvvisamente un episodio li precipita nella violenta realtà messicana: due sbandati sorprendono i due in aperta campagna e mentre uno tiene a bada Bennie con una pistola, l'altro tenta di violentare Elita. Il giovane (interpretato da Kris Kristofferson) sembra avere però un momento di esitazione durante lo stupro, svelando una tenerezza inaspettata, che fa sorprendentemente cambiare atteggiamento alla donna. La reazione di Bennie verso i due sarà spietata. Una volta arrivati al cimitero del villaggio, il problema risulta essere quello di disseppellire il cadavere e decapitarlo. Ma mentre il risoluto Bennie scava fino a trovare l'ambita testa, qualcosa va storto e lui perde conoscenza, colpito violentemente da tergo. Al suo risveglio lo attende l'orrore: la sua compagna è stata uccisa ed è stata sotterrata al posto del corpo di Alfredo Garcia. Un abisso di disperazione gli stringe l'anima e, da questo momento in poi, il suo unico obiettivo sarà capire i motivi di questa faida e punire i mandanti. Bennie scatta così in automobile all'inseguimento degli aggressori (due cacciatori di taglie che li avevano pedinati) e dopo averli uccisi e aver recuperato la testa, ritorna allucinato verso i suoi mandanti. Il viaggio di ritorno è un'odissea fetida, in cui lo spettatore è letteralmente sbalzato dentro l'abitacolo dell'auto, zeppo di mosche e maleodorante, di fianco ad uno stravolto Warren Oates, che si lascia andare a lunghi e farneticanti dialoghi con la putrescente testa/feticcio, racchiusa dentro il sacco. Bennie/Oates è l'alter ego di Sam Peckinpah: un fottuto loser individualista incapace di adeguarsi. Nel film emerge tutta la sua collera verso la natura corruttrice del denaro, la sua anarchica ostilità verso le magagne del potere, ma anche la sua profonda umanità, intrisa di romantico lirismo e di profonda dignità. Il suo protagonista si rende conto troppo tardi, come spesso accade nella nostra vita, di ciò che veramente più contava nella sua vita. Il finale vede una progressione di violenza inarrestabile e catartica, fatta di sparatorie e sangue, che porterà Bennie (rivelatosi un infallibile killer) a vendicare la sua vita rovinata, in un mondo dominato dalla legge della giungla. Arriverà ad uccidere il ricco feudatario, fregandosene dei soldi, per poi essere crivellato dalla gragnuola di colpi delle sue guardie del corpo. Un film straordinario che, sotto la patina del genere, si rivela essere una riflessione profonda sulla natura umana e sulle possibilità di maturazione degli individui e in cui la morte viene ad essere l'inevitabile e naturale sbocco della vita. L'ultima inquadratura è data da un nichilistico primo piano della bocca di un fucile a doppia canna, fumante per le pallottole appena scaricate. Peckinpah ha aperto, col suo cinema malinconico e crepuscolare, le porte al cinema moderno e infatti questo film all'epoca dell'uscita fu un flop sia di pubblico che di critica. Anche la nostra proiezione, risalente al 1995, vide uscire gli attòniti spettatori evidentemente disorientati e disturbati. Ma il tempo ha reso giustizia a quest'opera e uno dei più bei film degli ultimi anni, "Le tre sepolture" di Tommy Lee Jones, si configura come un evidente omaggio alle tematiche di "Voglio la testa di Garcia".

"Per Voglio la testa di Garcia ho pedinato come un segugio i peggiori rottami della società, i diseredati, i falliti per vedere, per sentire, per mangiare letteralmente il Messico attraverso i loro occhi, per catturare, attraverso i loro moventi, le loro reazioni, i loro caratteri, l'anima colorata di un paese che non è così aperto e scoperto come appare al turista...in quel clima di contraddizioni contorte in cui si dibatte spesso il cuore messicano, pronto, se serve, a pagare col diavolo l'incontro con Dio." (Sam Peckinpah)

13/08/08

Lon Chaney il Divo

Lon Chaney il Divo

In un'epoca in cui si scambiano meteore per icone, ragazzini problematici per star assolute, male non fa ricordare (nuovamente) uno dei veri grandi divi che la Settima Arte abbia mai avuto: Lon Chaney.
Figlio di genitori sordomuti, nell'infanzia Lon Chaney affinò una delicata sensibilità e un'acuta capacità mimica e mimetica, che in seguito utilizzò professionalmente, riuscendo ad essere meravigliosamente magnetico e coinvolgente in numerose interpretazioni grottesche, sempre poste in bilico tra l'orrore e la tragedia. Chaney cominciò la sua carriera veramente dal basso e dopo aver intrapreso ogni genere di mansione nel mondo dello spettacolo, sia dietro le quinte che sul palco di teatri ambulanti, venne assunto come trovarobe alle dipendenze di Allan Dwan, regista in seguito di oltre quattrocento film. Quello fu il trampolino di lancio per sfondare nel cinema vero e proprio, dal 1913 al 1919 Chaney interpretò (e qualche volta diresse) tantissimi film brevi e mediometraggi, nei quali indossava spesso i panni del diverso, del deforme, del freak. In pochi anni la sua peculiare poetica si impose universalmente, andando a minare definitivamente alle basi la scialba attorialità accademica/teatrale utilizzata dai fantocci di Hollywood. La tecnica di Chaney era impressionante, riusciva a trasformare il proprio corpo con lunghi e complicati trucchi, sopportando patimenti incredibili, per giungere a dare vita a personaggi indimenticabili, figure ai margini dell'immaginario, ma con le quali il pubblico poteva instaurare intimi rapporti di fratellanza e di solidarietà, in quanto esseri umani inconfutabilmente toccati dalla ferocia dell'esistenza.
Ma da grande professionista, Chaney non mancava anche di dedicarsi maniacalmente allo studio delle sfumature psicologiche dei suoi personaggi, facendone emergere di volta in volta la complessa umanità, fatta spesso di apocalittiche contraddizioni. L'incontro con Tod Browning diede vita a tanti capolavori del Cinema, tra cui
Lo sconosciuto
non è che il vertice di una poetica straordinaria e forse irripetibile. Alcune inutili storie del cinema non ne parlano.
Scusate, chi è Heath Ledger?

(post elaborato con spunti provenienti da scritti del grande Pino Bertelli)

11/08/08

PaZ

Celebro i circuiti sovraccarichi, celebro il medium con gli occhi rovesciati, celebro la pausa dagli umani affanni e dalle mondanità per baciare il cielo, celebro l'ardito messaggero dei quattro quadranti dell'universo...
It is impossible to be too clear...
we don't know about anything.
Especially people, nobody knows.
There are scientific terms
but why doesn't the water fly out
of the ocean when the earth whirls?
Because it is a ball of magic. (Dylan Thomas)
E' ufficiale e con estrema gioia annuncio che PaZ ha detto sì!
E posterà su musica, sogno lucido e dintorni...Gloria e Vita a PaZ!

Opera di Thomas Häfner

10/08/08

The Gilgames' Tale

The Gilgames' Tale
di Heriz Bhody Anam (2008 ITA 32')

“The Gilgames' Tale” è la libera trasposizione, in chiave moderna, di un poema epico assiro-babilonese, scritto in caratteri cuneiformi su tavolette d'argilla, che risale a circa 4500 anni fa, riguardante la storia e le avventure dell'eroico Gilgameš. La saga, ora custodita al British Museum, narra le gesta di un valoroso re sumerico, e del suo lungo viaggio alla ricerca dell'immortalità. La sua profetica storia esplora gli eterni dilemmi umani sul significato della vita e della morte. Gilgameš non è solo il primo eroe di cui si ha memoria nella storia scritta dell'umanità, ma è anche il primo eroe tragico, il cui smarrimento di fronte alla caducità della vita è comune a tutto il genere umano, sia del passato che, probabilmente, del futuro. L'opera si svolge con una tale ampiezza di respiro e drammaticità che, da tempo, la critica letteraria ha elevato la saga di Gilgameš al rango di altre composizioni divenute prezioso patrimonio dell'umanità quali l'Iliade, l'Odissea, la Divina Commedia e il Faust di Goethe.
Il mediometraggio tratto dalla saga è opera di Heriz Bhody Anam, per quanto riguarda le riprese e le animazioni, e di Antonio Gramentieri, per quanto riguarda le musiche. L'ispirazione per l'affascinante trasposizione è scaturita dalle sollecitazioni di un vibrante viaggio, fatto dai due, dall'Italia verso il deserto dell'Arizona, con una breve sosta in Francia. Successivamente al film è nata una coinvolgente performance dal vivo riguardante l'epopea di Gilgameš, da eseguire attraverso 12 (come le tavolette della saga) video montati dal regista in tempo reale e suggestivamente musicati dal vivo dal collettivo MUD.
A questo proposito risultano utili le parole del regista: “la performance si concentra sul viaggio di Gilgameš alla ricerca dell'immortalità. Dopo la morte dell'amico Enkidu, atterrito dalla prospettiva della morte, Gilgameš intraprende la sua ricerca della vita eterna. Decide quindi di trovare Utnapishtim, l'equivalente mesopotamico di Noè, unico uomo a cui gli Dei hanno concesso l'immortalità. Il viaggio poco a poco trasforma Gilgameš. Gli incontri e il paesaggio lo portano ad un mutamento di prospettiva che gli fa accettare una diversa consapevolezza del divenire”. Il progetto, originale e audace, ha colpito l'immaginario di diversi musicisti d'oltreoceano, tanto che la colonna sonora del film può vantare la straordinaria partecipazione di Marc Ribot (chitarrista di Tom Waits), di alcuni componenti dei Calexico (John Convertino e Jacob Venezuela), di Howe Gelb (Giant Sand), James Chance, Bill Elm (Friends of Dean Martinez) e di diversi musicisti nostrani, tra cui alcuni componenti dei Sea of Cortez (Mirko Monduzzi, Massimo Sbaragli, Diego Sapignoli) e, in veste di narratore, di John De Leo (Quintorigo).
Della saga originaria sono stati mantenuti intatti i passaggi principali, ambientandola però ai giorni nostri, tra paesaggi desertici e centri commerciali, svelando come il valore universale del messaggio sotteso sia tuttora di stringente attualità: “la storia di Gilgameš è giunta a noi attraverso diverse fonti, diversi siti, diversi linguaggi, dal protosumerico all'accadico, dal babilonese all'ittita. Ho voluto rendere questa diversità di linguaggi e provenienze fornendo fonti diverse di narrazione...il video, il disegno, la fotografia...come a ricreare i frammenti...uniti dal commento musicale a formare una forma di rappresentazione unica”.
Film complessivamente suggestivo, denso di simboli, che viene ad essere sospeso tra passato e futuro, tra morte e sopravvivenza, nella consapevolezza che i moderni feticci hanno probabilmente preso il sopravvento sui loro artefici. Nel film, vera e propria opera di confine, sfilano in sequenza timori ancestrali dell'essere umano, ma anche numerosi monumenti di una civiltà ormai in decomposizione, poco prima del Diluvio. Emerge sottilmente la dialettica conflittuale tra natura e storia in una sorta di meditazione, per immagini e musica, intorno alla caducità dell'esistenza, intorno al mistero della vita e della morte.
Colpiscono le parti girate in riva al mare, eterno lido del mondo, dove giocano i bambini e recitano poesie i poeti in cambio del seno di una ragazza sconosciuta, prima della fine e dopo la fine. Uno strano solare luogo di confine tra essere e non essere, tra terra e mare, tra smarrimento e ricerca, da cui la vita è uscita e in cui sembra voler rientrare. L'acqua nel film, come nella vita, ha una duplice valenza, riporta all'origine da un lato ed è distruttiva dall'altro. Per quanto riguarda la musica, Stefania Mazzotti scrive: "sonorità rarefatte in cui i suoni si insinuano come da lontano, da un tempo mitico da cui emerge tutta l'irrequietezza della ricerca di Gilgameš, le sue vittorie, i suoi sogni, i desideri e le sconfitte, ma anche la spinta al viaggio, all'esplorazione del nuovo, alla conquista di nuovi obiettivi per arrivare alla consapevolezza e alla saggezza".
Musica e immagini la fanno quindi da padrone, nella consapevolezza che la parola attualmente è muta, non è più in grado di comunicare nulla, al massimo può essere considerata come una specie di sfarfallio sonoro dell'inconscio.

Di colui che vide tutto io voglio narrare al mondo.
Di colui che conobbe ogni cosa, tutto io voglio raccontare.
Egli andò alla ricerca dei Paesi più lontani e raggiunse la completa saggezza.
Egli vide cose segrete, scoprì cose nascoste,
riferì delle storie dei tempi prima del Diluvio.
Egli percorse vie lontane, finché stanco e abbattuto si fermò.
E fece incidere tutte le sue fatiche su una stele di pietra.

La Torre di Babele

Le cose che ti si offrono in mille
dimensioni, come favola o come verità,
non sono che una torre di Babele
se l'amore non le lega. (Goethe)

09/08/08

The Cathedral

Katedra
di Tomek Bagiński (2002 POL 7')

05/08/08

Rapporto confidenziale - numerosette

Rapporto confidenziale - numerosette
Rivista digitale di cultura cinematografica

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EDITORIALE di Alessio Galbiati

Al solito l’editoriale. Croce e delizia. A dire il vero più croce. Testa o croce? La testa è quella di Abel Ferrara, del quale ci siamo occupati diffusamente con uno speciale che spazia nel suo cinema - ma che prescinde dalla novità (Go Go Tales è passato in qualche sala italiana, ma diffusamente lo trovate sulle riviste specializzate con le quali abbiamo ingaggiato un duello, siamo dunque duellanti...) - e la croce è quella dell’essere umano Ferrara sopra la quale egli stesso ha da tempo deciso di auto-affiggersi per provare a liberarsi - e liberarci - da un’ansia ed una colpa cattolicamente ataviche - o atavicamente cattoliche? Con immagini (quelle di Cesare Moncelli) e con parole (quelle di Lanzarotti, Monacella, Cavisi, Galbiati e Contin), abbiamo ammirato la sua auto-croce-fissione. Un gioco sospeso fra Sacro e Profano (servono le maiuscole?!) lo stesso praticato dagli organizzatori della terza edizione del Volcano Film Festival, festival del cinema artigiano, che in una delle sue sezioni utilizza questo concetto come tema per un workshop aperto alle giovani leve dell’audiovideo siculo. Con il VFF entriamo per la prima volta all’interno d’un evento “reale” provando a suturare quella distanza che la rete pone fra lo scrivente e la realtà. Se Rapporto Confidenziale nasce come tentativo d’oltrepassare l’atomizzazione, vera e propria deriva dello scrivere di cinema sul web, questa prima media partnership sancisce un salto notevole nella qualità del percorso che abbiamo intrapreso. La nostra presenza al festival in questione, come pure dell’imminente Festival di Locarno lascerà tracce anche sul prossimo numero con report dettagliati degli eventi in questione.
Con questo numero doppio, il settimo (ovvero l’ottavo, tenendo conto del numerozero di dicembre 2007) si chiude la prima fase di RC, quella che da tempo amo definire ‘eroica’. Da settembre saremo diversi, più completi e chiari, più sistematici ed approfonditi ma sempre liberi ed indipendenti, consapevoli d’essere la prima rivista italiana che parla di cinema utilizzando quel rivoluzionario strumento che sono le licenze Creative Commons, per una libera circolazione del sapere e della curiosità.
A settembre allora... e buona lettura!!! A.G.

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04/08/08

Fuoco Fatuo

Fuoco Fatuo
di Louis Malle (1963 FRA 108')
con Maurice Ronet, Léna Skerla, Yvonne Clech, Bernard Noel, Jeanne Moreau.

Opera indimenticabile, intensa e commovente, che interconnette la vita e le sofferenze di alcuni straordinari artisti, quali Louis Malle e Maurice Ronet, ma anche quelle dell'autore del libro Pierre Drieu La Rochelle e del personaggio a cui questo è ispirato: Jacques Rigaut. Un film che è un lancinante ed estremo grido di protesta verso quella normalità e banalità, rappresentate dagli ideali borghesi, che il protagonista non riesce assolutamente ad accettare e che sfoceranno in pochi anni nell'omologante massificazione planetaria dei nostri giorni. Nel film e nel libro viene estrinsecato l'orrore verso "una vita regolata, casalinga, pantofolaia...una meschina esistenza da individui con una piccola rendita che, chiusi in casa, fuggono avventure e rischi...un tran tran da vecchie zitelle, unite in un culto comune, caste, inacidite, pettegole, e che si rivoltano scandalizzate quando si parla male della loro religione" (dal libro). Ma allo stesso tempo vi è anche la rappresentazione della paura di diventare adulti, con tutto il carico di responsabilità e compromessi che questo comporta. Il film è incentrato sul sensibile Alain, trentenne alcolista corroso dalla noia e dal male di vivere, che decide lucidamente di togliersi la vita. Ma prima di compiere l'ultimo atto vuole reincontrare alcune persone che sono state importanti nella sua esistenza, forse nella speranza che possano dissuaderlo o forse per dargli un tenero saluto finale. Il film, con musiche di Erik Satie, è molto fedele alle atmosfere del romanzo, con però due cambiamenti significativi: Alain sullo schermo è un alcolista, mentre nel libro è un tossicodipendente da eroina, l'ambientazione è spostata dagli anni Venti del libro agli anni Cinquanta del film. Il film è scarno ed essenziale, concentrato sui futili rituali della vita quotidiana di Alain, sui suoi monologhi interiori e sulle sue piccole manie. Percorre la pellicola, la stupefacente interpretazione di Maurice Ronet, che vive il personaggio letteralmente sulla propria pelle, portando nelle eloquenti espressioni del volto i segni invisibili di un'esperienza vissuta assai simile a quella del protagonista: Ronet infatti beveva come il personaggio del film e dovette perdere, all'epoca della pellicola, 20 chili di peso per poter iniziare le riprese. Ciò che emerge, deflagrante, è l'incomunicabilità profonda tra esseri umani, la difficoltà a condividere l'altrui dolore, immersi, come siamo, in mezzo a mille impegni di lavoro o mondani. Il libro infatti nasce dal rimorso di Drieu La Rochelle per non essere riuscito a impedire e forse a capire che l'amico Rigaut si sarebbe veramente ucciso. Ambedue, libro e film, sono percorsi da un'inquietudine e un'irrequietezza senza scampo, dense di interrogativi esistenziali, espressione tangibile di un'angoscia profonda, verso la quale i valori tradizionali, quali famiglia, professione, arte e amore risultano insufficienti e aleatori (ricordo l'impressione che fece la pellicola a molti cari amici all'epoca della nostra proiezione, alcuni addirittura si chiusero in un preoccupante mutismo). Il suicidio del protagonista, con questi presupposti, può essere visto come un atto estremo di rivolta contro la volgarità e l'inconsistenza della vita circostante, ma anche come una fuga dal vuoto e dal nulla che permeano, inesorabilmente, la vita di chi, come Alain, si è dedicato alla dipendenza. "Il suicidio è la risorsa degli uomini la cui molla è stata corrosa dalla ruggine, la ruggine del quotidiano. Sono nati per l'azione, ma l'hanno ritardata; allora, l'azione si ritorce nuovamente su di loro come un boomerang. Il suicidio è un atto, l'atto di coloro che non ne hanno potuto compiere altri." (dal libro)
A questo proposito il libro è incentrato su Jacques Rigaut, esponente del dadaismo francese, colui che fece del suicidio il suo cavallo di battaglia e che a tal proposito amava dichiarare: "Provate, se potete, a fermare un uomo che viaggia col suicidio all'occhiello". Rigaut era uno splendido dandy talentuoso, che offrì la sua breve vita al piacere, alla dissipazione, alle donne, all'alcool, all'eroina, alla stravaganza e al lusso più effimero. L'atteggiamento di Rigaut fu tipico di chi trova soddisfazione nella sostanza (era eroinomane), permeato di un nichilismo fine a sé stesso e con un'indifferenza spiazzante, che lo portava a pronunciare frasi (rivolte verso i compagni del movimento dada) come: "voi siete tutti dei poeti e io sono dalla parte della morte". Quindi esattamente il prodotto dell'assuefazione alla droga: un essere umano completamente svuotato, che ha perduto ogni appiglio ideologico e morale. Rigaut amava dire che scriveva per vomitare e uno dei passaggi più eloquenti della sua frammentaria produzione letteraria fu questo: "c'è gente che fa soldi, altri fanno i matti, ed altri ancora dei figli. C'è chi fa dello spirito. C'è chi fa l'amore, e chi fa pena. Da quant'è che cerco di fare qualcosa! Non c'è niente da fare. Non c'è niente da fare". La noia, il nulla...come si vede nel film, il suicidio di Rigaut fu impressionante, preparò tutto scrupolosamente e nei minimi particolari: assicurando il candore delle lenzuola del letto con una tela cerata, si mise seduto appoggiato su un gruppo di comodi cuscini, posizionandone un altro tra il proprio petto e la canna della pistola: "ho compiuto quest'incredibile prodezza. Ho preso una breve rincorsa e a fronte bassa ho attraversato lo specchio. E' stato facile e magico. Un leggero taglio sulla fronte, ferita impercettibile e fatale. Da allora, mentre prima ogni specchio portava il mio nome, ora sono io che dall'altra parte vi rispondo, sono io che vi informo, sono io che vi plasmo...".
Drieu La Rochelle (a sua volta suicidatosi per evitare il processo, in quanto collaborazionista dei nazisti durante la repubblica di Vichy) cerca una giustificazione all'atto dichiarando, nel libro, che "i drogati sono i mistici di un'epoca materialistica che, non avendo più la forza di animare le cose e di sublimarle a simbolo, intraprendono su esse un'opposta opera di riduzione e le consumano e le logorano fino a raggiungere in esse il nucleo del nulla. Essi sacrificano al simbolismo dell'ombra per controbattere il feticismo del sole, detestato perché ferisce occhi già stanchi"...ma direi proprio che Rigaut di giustificazioni non ne ha...solo un'immensa pietà umana...

"Più vado avanti nella vita, più diffido delle idee e più mi fido delle emozioni."
(Louis Malle)