25/10/12

Programmazione cinema Scaglie Novembre 2012


Novembre Cinema 2012 Scaglie
Mercoledì 7 Novembre ore 21.30
George Harrison Living in the material world
di Martin Scorsese (2011 GB 208')
Applaudito in tutto il mondo, il film di Scorsese è prima di tutto il racconto di una splendida epopea, un’esperienza straordinaria e sfuggente, gli otto anni che hanno cambiato la storia della musica pop: quelli della rivoluzione culturale dei Beatles e del loro successo immortale, cui Harrison contribuì con brani tra i più amati della band (su tutti citiamo “Here Comes the Sun” e “Something”, che fu definita da Frank Sinatra «la più bella canzone d’amore degli ultimi cinquant’anni»). Ma è anche la storia di un uomo, dopo il 1970, in viaggio verso l’impegno umanitario (nel 1971 si fa promotore del “Concerto per il Bangladesh”, che sarà il modello per tante iniziative benefiche future) e una spiritualità sempre più intensa che avrebbe segnato tanto la sua vita quanto la sua musica, portandolo in contatto con la tradizione indiana fino alla conversione all’induismo (alla sua morte, a 58 anni nel 2001, le sue ceneri saranno sparse nel Gange). Per ripercorrere questa storia di musica e vita, George Harrison living in the material world si avvale delle testimonianze, oltre che dello stesso Harrison, di chi gli è stato più vicino (dalla vedova Olivia, produttrice del film, al figlio Dhani), degli altri Beatles e di personaggi come gli amici e colleghi Ravi Shankar e Eric Clapton. E ancora: Jackie Stewart, Terry Gilliam, George Martin, Jane Birkin, Yoko Ono, Klaus Voorman, Phil Spector, Tom Petty.
Testimonianze che, insieme a quasi quattro ore di grande musica, cinema, materiali di repertorio inediti (oltre 600 le ore di filmati messe a disposizione di Scorsese da Olivia Harrison), contribuiscono al racconto di un’icona immortale, offrendo autentiche “rarità” ai suoi fan e ai beatlesiani di ogni età.
Mercoledì 14 Novembre ore 21.30
Hearts of Darkness
di Eleanor Coppola  (1991 USA 96’)
Un piccolo gioiello che racconta l’odissea di Francis Ford Coppola durante la realizzazione di Apocalypse Now: 238 giorni di riprese dove la megalomania del prestigioso regista sconfina in una patologica crisi di onnipotenza, aggravata dalle innumerevoli catastrofi naturali, politiche, artistiche, produttive e umane che si abbatterono sulla troupe come in una sorta di maledizione o sortilegio, rischiando di far naufragare la produzione e lasciare sul lastrico Coppola, all’epoca da poco celebrato con il premio Oscar per Il padrino. Hearts of darkness: Diario dall’apocalisse non è da confondere con un making of perché qui i dietro le quinte, le curiosità, i tic e i dubbi artistici, le vicende personali degli attori e la vita sul set, la logica del denaro e le scommesse produttive si fondono in una narrazione che ha il fiato del grande racconto. La storia infatti, alternando recenti interviste ai protagonisti e splendidi filmati girati dalla moglie del regista, Eleanor Coppola, all’epoca della lavorazione, riesce a mettere in scena il profondo mutamento che la realizzazione di Apocalypse Now ha scavato nelle vite di coloro che vi presero parte. I confini tra realtà e finzione nel documentario si fanno così sempre più labili, le ossessioni dei personaggi si trasferiscono negli interpreti e in chi li guida, e Diario dall’apocalisse diventa uno di quei pochi ed eletti “documentari dal set” che inevitabilmente finiscono per confondersi con le pellicole finali arrivate in sala, rappresentandone non solo un’integrazione, un retroscena, ma anche un’irrinunciabile appendice. “Può sembrare un’esagerazione, una trovata pubblicitaria – e il parallelo fra le manie di grandezza di Coppola e quelle del suo personaggio Kurtz è diventato un luogo comune usurato. Eppure, è fortissima l’impressione che tutte le persone coinvolte nel film abbiano dovuto andare ben al di là del loro compito, immergersi nell’atmosfera malsana della giungla, percorrere loro stessi “il fiume”, come fanno i personaggi del film, per uscirne rinnovati, purificati. Martin Sheen che verrà colpito da un infarto a metà delle riprese. Sam Bottoms che ammette, senza problemi, con il disincanto di chi, nonostante tutto, è diventato adulto e guarda con divertito distacco alle proprie ragazzate, di aver assunto droga durante la lavorazione del film (e speed, un’amfetamina, durante la scena al ponte di Do Long). E poi Coppola stesso, ovviamente. Coppola con le sue crisi (“Sto girando un brutto film, pretenzioso”, “Questa è un’idiodissea”), con le sue secche creative (i tanti dubbi sul finale), le sue ambizioni senza freni (“Ho girato il film più volgare, il più spettacolare, emozionante, granguignolesco, sensoramico, pieno d’azione, eccitante, mozzafiato... c’è tutto, sesso, violenza, umorismo... perché voglio che la gente venga a vederlo.” Oppure, come riportato da John Milius: “Sarà il primo film a vincere il Nobel”). Ma anche il suo entusiasmo, la sua volontà di andare fino in fondo, il suo sforzo per trovare i finanziamenti. Anche il suo cinismo, quando necessario (“Se Marty [Sheen] muore. Voglio che tutto vada avanti senza problemi finché io non dico: Marty è morto”). Ed è questo impegno di tutti al di là dei loro stessi doveri (un impegno quasi maniacale, che ricorda quello dell’Herzog di Fitzcarraldo – film dai molti punti di contatto con Apocalypse Now) a permettere di superare un tifone (che distrugge i set – compreso il “tempio di Kurtz” a cui avevano lavorato seicento persone sotto la direzione di Dean Tavoularis), l’infarto dell’attore principale, l’impreparazione e le pretese di Brando (che arriva sul set senza aver letto il libro, e si rifiuta di recitare il copione e di venire ripreso in piena luce), i 238 giorni di riprese nella giungla delle Filippine con il caldo soffocante, l’umidità, il fango e gli insetti.”
Mercoledì 21 Novembre ore 21.30
Strange Circus
di Sion Sono (2005 GIAP 108')
Luci al neon colorato e tanto buio tutt’attorno: questo è il circo in cui ci ritroviamo catapultati insieme alla piccola Mitsuko. Persone strane con vestiti strani che fanno cose strane e che sembrano riflettere un mondo che non è poi così distante da loro. Mitsuko si tappa le orecchie per non sentire i gemiti di un passato che si manifesta prepotentemente in quel circo così strambo. Un passato idealizzato all’interno della custodia di un violoncello con un buco, il buco in cui guardava i suoi genitori mentre facevano sesso, obbligata da suo padre. E anche quando Mitsuko è costretta a passare dalla custodia al letto, la sua visione delle cose non cambia: i suoi occhi diventano quelli di sua madre e adesso è lei quella rinchiusa nella custodia, a guardar(si), sua madre. Mitsuko ha gli occhi grandi, i capelli scuri e lucidi, Mitsuko assomiglia tutta a sua madre. Ma Mitsuko non esiste, perché è il personaggio del nuovo racconto di una celebre scrittrice erotica giapponese costretta su una sedia a rotelle. Il racconto piace agli editor, ma questo è solo l’inizio: il racconto continuerà, come non si sa. Non sappiamo nemmeno cosa si cela dietro il passato oscuro della scrittrice: quanto di quello che scrive è realmente accaduto?
E’ un oggetto strano questo “Strange circus”, forse l’opera più matura e completa del regista giapponese Sion Sono. Un film che inizia con incesti, molestie sessuali e che prosegue tra mutilazioni e ferite mai rimarginate, almeno a pensarci, non deve essere cosa facile da digerire (anche visivamente). I momenti di violenza dura e cruda non mancano di certo, ma Sono non riesce mai ad essere disturbante come Miike, prendendo una strada decisamente differente e, a tratti, più impervia. “Strange circus” è uno strano connubio tra brutalità ed innocenza, tra candore e violenza, metaforicamente rappresentate proprio dal circo, da sempre sinonimo di divertimento ma anche di ossessioni. E Sono usa proprio la struttura fisica del circo per costruire sopra il suo film, che sembra formare continue volute attorno al punto centrale attorno a cui inizia la storia.
Sion Sono (che è anche il compositore delle musiche del film, tra l’altro veramente ottime) illumina il film di un pop slavato e angosciante, dove il rosso alle pareti da vernice si trasforma in sangue e dove una grande ruota panoramica sembra trasformarsi in un enorme mostro alieno.
Un grande merito va anche a Masumi Miyazaki, attrice capace di rendere alla perfezione le molteplici personalità del suo personaggio grazie ad un’interpretazione stratificata e sottile.
Mercoledì 28 Novembre ore 21.30
Driver l’imperdibile
di Walter Hill (1978 USA 91')
Il cowboy è un’autista al soldo del miglior offerente: con lui al volante ogni fuga dopo una rapina è assicurata. Sulle sue tracce c’è il detective, poliziotto ossessionato dal pensiero di mettergli le manette ai polsi.

Driver l’imprendibile vede la luce in piena “car-chase” mania, quando il cinema statunitense trabocca di pellicole con protagoniste quattro ruote e motori rombanti. Film come Vanishing Point, The Seven-Ups, Two Lane-Blacktop, Dirty Maru Crazy Larry e Gone in 60 Seconds sono già storia: un misto di poesia utopica, antieroismo solitario e rigurgito poliziesco che ha fatto la gioia dei cultori di b movie e non solo. Walter Hill (all’epoca al suo secondo film dopo lo stradaiolo-pugilistico Hard Times) entra di prepotenza tra le pieghe di un filone o presunto tale con la delicatezza di un elefante che si aggira in un negozio di cristalli. Vedere per credere il formidabile incipit: non un dialogo, nemmeno l’ombra di una battuta che sia mezza, 20 folgoranti minuti dove la definizione dell’ambiente cittadino, la scansione sulla scena dei personaggi portanti e il “cardiopalmico” inseguimento tra fuggiaschi e auto della polizia non può non ricordare i fatidici 9 minuti di Bullit, pietra miliare che il regista decide di omaggiare senza perdere tempo in fronzoli inutili. 

The Driver già consegna Hill alla storia del cinema, illustrando esaurientemente gli intenti di un autore in erba, intenzionato a dimostrare quanto la sua poetica si già pronta per diventare testo da analizzare. Contrariamente ad altre operazioni (I guerrieri della notte, I guerrieri della palude silenziosa, Strade di fuoco) Driver l’imprendibile non si pone un obiettivo verticale, un punto d’arrivo, una meta dal percorso vettoriale, bensì procede circolare, percorrendo all’infinito l’asfalto già segnato dai pneumatici stridenti: cacciatore e preda infatti, continuano a mordersi vicendevolmente la coda in cerchio, come anime arrese ad un destino indesiderato ma non per questo non rispettato e vissuto fino all’ultima goccia di sudore. Il western, già ridisegnato dieci anni prima nello spazio metropolitano da Don Siegel con L’uomo dalla cravatta di cuoio, permane come ispirazione riveduta e corretta (il protagonista porta il fittizio soprannome di “Cowboy” mentre gli interrogatori si svolgono in un bar, parente moderno del saloon), ma l’intento di Hill conduce la sua opera seconda addirittura oltre. Un gioco tra gatto e topo, dove la spersonalizzazione fumettistica delle psicologie attoriali non contempla nemmeno l’assegnazione di un nome, ma soltanto quella di un ruolo (nello specifico il pilota, il detective e la giocatrice. Il tutto decenni prima di Le Iene) circoscritto da compiti che non prevedono che il personaggio possa permettersi di uscire fuori parte. Il resto sono le prime, impazzite schegge di un videogioco mortale, dove oltre al rischio e al crescente livello di difficoltà, viene aggiunta la variante dell’inganno, certificata dall’accordo tra il detective e un criminale qualunque al fine di incastrare, a costo di giocare sporco, il Cowboy. Driver l’imprendibile rappresenta il fiore all’occhiello di uno spaccato di cinema irripetibile e irreplicabile; fa tenerezza riguardarlo ora (magari assieme a Strade Violente di Michael Mann) e pensare che c’è qualcuno capace anche solo di avvicinargli - Drive di Nicolas Winding Refn.
(tutte queste recensioni prese in prestito dal web)