I film distribuiti nelle sale sono spesso riconducibili ad una struttura narrativa elementare consistente in una successione di avvenimenti o azioni concatenate tra loro da rapporti di causa-effetto lungo precise coordinate spaziali e temporali. Questa rassicurante intelaiatura di base, invece, manca quasi totalmente nel campo della video-arte. Il tentativo infatti di raccontare una video-opera è quasi sempre destinato al fallimento in quanto questa forma espressiva vive e prolifera nei territori dell’inconscio (di per sé amorale, atemporale, alogico) esplorando la possibilità di prolungare o ampliare le nostre sensazioni percettive e così regredendo ad una fase pre-narrativa in cui è prioritario il “far vedere”, emozioni, ricordi o lo stesso supporto tecnologico del mezzo, rispetto al “dire qualcosa”. Le immagini così, in un libero flusso di coscienza, eleggono casualità, caoticità ed imprevedibilità a loro principi estetici scoprendo nuove dimensioni spaziali e temporali nel tentativo di rappresentare l’irrapresentabile.
Anche il cinema ha approfondito sporadicamente nella sua storia queste sue affascinanti possibilità (del resto il buio che invade a poco a poco la sala equivale in un certo senso all’azione di chiudere gli occhi, isolando così lo spettatore rispetto al mondo esterno e bombardandolo di immagini che, come nel sonno, compaiono e scompaiono annullando tempo e spazio) e sicuramente il primo a cogliere questa potenzialità in tutta la sua portata eversiva è stato il surrealista Luis Bunuel con i suoi primi film Un chien Andalou (1929) e L’age d’or (1930). Costituiti da immagini assemblate per associazione mentale (lasciando da parte ragione, morale ed estetica) riescono grazie alla discontinuità della rappresentazione a sottolineare l’assurdità del reale e ad innescare nello spettatore un particolare processo di catarsi e di auto-analisi. La via inaugurata dall’andaluso è poi stata seguita da vari autori/artisti underground che non hanno, però, avuto distribuzione nelle sale come Kenneth Anger, Stan Brakhage, Man Ray, Jean Genet o in tempi più recenti Alejandro Jodorowski, Raul Ruiz, Conrad Rooks, Jan Svankmajer e Shinja Tsukamoto.
Ma il tentativo di destrutturare la forma e ricercare nuove strade comunicative si riscontra più velatamente anche nei film di qualche autore arrivato alla distribuzione nelle sale.
Vorrei citare (per ora) almeno tre linee espressive insolite nel cinema degli ultimi anni. Una è quella seguita da David Lynch soprattutto in Eraserhead (1976), Lost Highway (1995) e Inland Empire (2006), lucide ed illuminanti immersioni nella psiche umana, ma anche nelle altre sue opere si possono rintracciare frammenti di irrazionale che irrompono inaspettatamente a sconquassare le sicurezze dello spettatore, testimonianza della sua capacità di essere in contatto con le parti più oscure e misteriose dell’inconscio.
Interessante è anche la linea espressiva percorsa da Abel Ferrara (Snake Eyes, Blackout, New Rose Hotel) che ha sviluppato uno stile molto originale fondendo immagini impure in video con altre in pellicola, arrivando così a cogliere la sfumatura di senso con la sensibilità e non con la tecnica. Inoltre il suo cinema lacerato, mancante, imperfetto diventa un mezzo di auto-analisi e catarsi per ricercare attraverso la forma espressiva un punto d’origine della propria infelicità, del proprio disagio, di un oggetto che, se non spiega, almeno segnala un luogo da cui muovere. Oltre a tutto questo il regista possiede un riconoscimento, tutto moderno, di raccontare, di scrivere e di elaborare storie da un “punto cieco”, da leggi infrante, da condizioni che sono interiorizzate nelle storie stesse e nella loro messa in scena. Forse il suo modo di fare cinema è quello più vicino al nuovo millennio quando la diffusione delle telecamere digitali, permessa dall’abbattimento dei costi, consentirà una sorta di democratizzazione dell’immagine e accorcerà in maniera definitiva la distanza tecnica tra il cinema hollywoodiano e le produzioni indipendenti di video-makers locali.
Altra linea espressiva singolare del cinema contemporaneo è quella seguita dal canadese Atom Egoyan (Mondo Virtuale, Black Comedy), riflessione profonda sull’immagine riprodotta. I suoi film brulicano di telecamere, televisori accesi, filmati amatoriali, riprese a circuito chiuso e i suoi personaggi vedono rivelata la propria vera identità solo attraverso l’osservazione di riprese video come se questo fosse l’unico mezzo di reale comunicazione rimasto agli esseri umani ed anche l’unico modo per (ri)conoscersi.
20/10/07
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