Il vello d'oro era, secondo la mitologia greca, il vello (pelle intera) dorato di un ariete alato capace di volare che Ermes donò a Nefele. Il vello d'oro fu in seguito rubato da Giasone. Il vello aveva il potere di guarire le ferite.
Atamante ripudiò la moglie Nefele per sposare Ino. Quest'ultima odiava Elle e Frisso, i figli che Atamante aveva avuto da Nefele, e cercò di ucciderli per permettere a suo figlio di salire al trono.
Venuta a conoscenza dei piani di Ino, Nefele chiese aiuto ad Ermes che le inviò un ariete dal vello d'oro, il quale caricò in groppa i due fratelli e li trasportò, volando, nella Colchide. Elle cadde in mare durante il volo ed annegò, mentre Frisso arrivò a destinazione e venne ospitato da Eete.
Frisso sacrificò l'animale agli dei, donando il vello ad Eete, che lo nascose in un bosco, ponendovi un drago di guardia.
Il vello venne successivamente rubato da Giasone e dai suoi compagni, gli Argonauti, con l'aiuto di Medea, figlia di Eete.
Il mito sembrerebbe rifarsi ai primi viaggi dei mercanti-marinai proto-greci alla ricerca di oro, di cui la penisola greca è assai scarsa. Da notare che tuttora nelle zone montuose della Colchide e delle zone limitrofe, vivono pastori-cercatori d'oro seminomadi che utilizzano un setaccio ricavato principalmente dalvello di ariete, tra le cui fibre si incastrano le pagliuzze di oro. Altri studiosi ritengono che si tratti di una metafora dei campi di grano, scarso in Grecia, e che gli antichi Elleni si procuravano sulle coste meridionali del Mar Nero. Altri ancora lo ritengono l’oro degli Scizi, della popolazione scita, nella Crimea russa.
La Sacra Sindone
La Sindone fotografata da Giuseppe Enrie (1931). In alto l'immagine dorsale (capovolta), in basso quella frontale. Ai lati delle immagini si vedono le bruciature dell'incendio del 1532 e i relativi rattoppi (rimossi nel 2002).
La Sindone di Torino, nota anche come Sacra Sindone, è un lenzuolo funerario di lino conservato nel Duomo di Torino, sul quale è visibile l'immagine di un uomo che porta segni di maltrattamenti e torture compatibili con quelli descritti nella Passione di Gesù. La tradizione identifica l'uomo con Gesù e il lenzuolo con quello usato per avvolgerne il corpo nel sepolcro. La sua autenticità è oggetto di fortissime controversie.
Il termine "sindone" deriva dal greco σινδών (sindon), che indica un tessuto di lino di buona qualità o tessuto d'India. Il termine è ormai diventato sinonimo del lenzuolo funebre di Gesù.
Le esposizioni pubbliche della Sindone sono chiamate ostensioni (dal latino ostendere, "mostrare"). Le ultime sono state nel 1978, 1998, 2000 e 2010: quest'ultima è iniziata il 10 aprile, e si è conclusa il 23 maggio.
Tutti gli storici sono d'accordo nel ritenere documentata con sufficiente certezza la storia della Sindone a partire dalla metà del XIV secolo: risale infatti al 1353 la prima testimonianza storica[1]. La datazione radiometrica con la tecnica del Carbonio 14, eseguita nel 1988, ha datato la stoffa del lenzuolo in un intervallo di tempo compreso tra il 1260 e il 1390 d.C.[1]
Sulla sua eventuale storia precedente non vi è invece accordo. I sostenitori dell'autenticità del telo non giudicano attendibile l'esame svolto nel 1988, ipotizzando inquinamento dei lacerti di tessuto prelevati per essere sottoposti a indagine. Ritengono quindi che la Sindone sia l'autentico lenzuolo funebre di Gesù e che risalga alla Palestina del I secolo; essi sostengono inoltre la «suggestiva ipotesi»[1] secondo cui la Sindone di Torino sia da identificare con il mandylion o "Immagine di Edessa", un'immagine di Gesù molto venerata dai cristiani d'Oriente, scomparsa nel 1204 (questo spiegherebbe l'assenza di documenti che si riferiscano alla Sindone in tale periodo)[2]. In questo caso, occorre ipotizzare che il telo di Edessa, che è descritto come un fazzoletto, fosse esposto solo ripiegato più volte e in modo tale da mostrare unicamente l'immagine del volto[1].
Secondo i racconti dei vangeli, dopo la sua morte il corpo di Gesù fu deposto dalla croce, avvolto in un lenzuolo (sindone) con bende e trasposto nel sepolcro. Luca e Giovanni menzionano i tessuti funebri anche dopo la risurrezione. Della sindone evangelica non viene fornita alcuna descrizione circa dimensioni, forma, materiale; viene però indicato che fu utilizzato un telo per il corpo e un fazzoletto (sudario), separato, per la testa[3].
È ipotizzabile che il telo e il sudario siano stati conservati dalla primitiva comunità cristiana. Pur non essendo presente alcun esplicito accenno o riferimento, nei Vangeli, circa la formazione di un'immagine su un qualche tessuto, vi sono indizi in questo senso (si veda più oltre il paragrafo dedicato alMandylion) in alcuni documenti antichi Queste notizie sarebbero comunque state tenute nascoste a causa delle persecuzioni e delle credenze giudaiche che ritenevano impuri gli oggetti venuti a contatto con un cadavere.
A ciò si aggiunga che nel mondo giudaico era severissimamente vietato raffigurare Dio, il che può spiegare la straordinaria attenzione con cui lungamente sarebbe stata occultata l'immagine di Gesù, Uomo-Dio.
Il fondamento teologico dell'avversione del popolo ebraico alla raffigurazione di immagini allo scopo di venerarle (idolatria) è presente sin dall'Esodo: "Non ti farai idolo né immagine alcuna di ciò che è lassù nel cielo, né di ciò che è quaggiù sulla terra, né di ciò che è nelle acque sotto la terra"(Esodo, 20, 4).
La più antica testimonianza storica della Sindone di Torino non va più indietro degli anni cinquanta del XIV secolo, quando la Sindone, con modalità che rimangono ignote, comparve nelle mani del cavaliere Goffredo di Charny e di sua moglie Giovanna di Vergy[1].
Il 20 giugno 1353 Goffredo donò la Sindone al capitolo dei canonici della collegiata di Lirey, che egli aveva fondato[4]; la prima ostensione pubblica di tale telo avvenne, pare, nel 1357 (Goffredo era morto l'anno precedente), suscitando negli anni seguenti diversi dubbi sull'autenticità del telo. Nel 1415 Margherita di Charny, discendente di Goffredo, si riappropriò del lenzuolo (ne originò un lungo contenzioso con i canonici) e nel 1453 lo vendette o cedette ai duchi di Savoia.
Questi la conservarono a Chambéry in Savoia, dove il 4 dicembre 1532 sopravvisse all'incendio della Sainte-Chapelle du Saint-Suaire, riportandone gravi danni in diversi punti, perforata in vari strati da una goccia d'argento fuso colata dal reliquiario[1]. Nel 1578 venne portata a Torino, dove nel frattempo i Savoia avevano trasferito la loro capitale. L'occasione di tale trasferimento fu la richiesta da parte del vescovo di Milano, Carlo Borromeo, di venerare la reliquia per sciogliere un voto fatto in occasione della peste di Milano. Il trasferimento del telo doveva servire ad abbreviare il viaggio a piedi del Vescovo. Da allora vi rimase ininterrottamente fino al giorno d'oggi, salvo brevi intervalli. Nel 1898 venne fotografata per la prima volta dall'avv. Secondo Pia: in quell'occasione si scoprì che l'immagine impressa sul lenzuolo presentava le caratteristiche di un negativo fotografico.
Umberto II di Savoia, ultimo re d'Italia, alla sua scomparsa (1983) la lasciò in eredità alla Santa Sede che ne delegò la custodia all'Arcivescovo di Torino.
Nel 2009 la proprietà della Sindone è stata messa in discussione: secondo il professor Francesco Margiotta Broglio, studioso dei rapporti tra Stato e Chiesa, con l'entrata in vigore della Costituzione repubblicana (1º gennaio 1948) la Sindone sarebbe diventata proprietà dello Stato italiano in base alla XIII disposizione, comma 3, e il legato testamentario di Umberto II sarebbe nullo[5]. Tuttavia la Santa Sede avrebbe nel frattempo acquisito la proprietà della Sindone per usucapione in buona fede: sulla questione è stata presentata una interrogazione parlamentare ma non risulta ancora una risposta del governo[6][7].
Il lenzuolo
La Sindone è un lenzuolo di lino di colore giallo ocra, avente forma rettangolare di dimensioni di circa 441 cm x 113 cm, spessore di circa 0,34 mm e massa di circa 2,450 kg . In corrispondenza di uno dei lati lunghi, il telo risulta tagliato e ricucito per tutta la lunghezza a otto di centimetri dal margine.[8]
Il lenzuolo è tessuto a mano con trama a spina di pesce e con rapporto ordito-trama di 3:1.
Il lenzuolo è cucito su un telo di supporto, pure di lino, delle stesse dimensioni: il supporto originale, applicato nel 1534, è stato sostituito nel 2002 con un telo simile più recente.
Sono chiaramente visibili sulla Sindone i danni provocati da alcuni eventi storici. I più vistosi sono le bruciature causate da un incendio nel 1532, disposte simmetricamente ai lati dell'immagine in quanto il lenzuolo era conservato ripiegato a formare un plico di 32 strati e le bruciature hanno dimensioni decrescenti man mano che si scende negli strati sottostanti e ci si allontana dalla fonte di calore (il coperchio del reliquiario fu pressato da un oggetto incandescente). Si tratta di un vero e proprio cratere di forma approssimativamente triangolare che Aldo Guerreschi e Michele Salcito hanno ricostruito e presentato al Convegno di Parigi, nel 2002. Dal 1534 al 2002 i fori erano coperti da rappezzi, che sono stati poi rimossi contestualmente alla sostituzione del telo di supporto.
L'immagine
Il lenzuolo riporta due immagini molto tenui che ritraggono un corpo umano nudo, a grandezza naturale, una di fronte (immagine frontale) e l'altra di schiena (immagine dorsale); sono allineate testa contro testa, separate da uno spazio che non reca tracce corporee. Sono di colore più scuro di quello del telo. Ognuna delle due immagini appare essere la proiezione verticale di una figura umana, e non quella che si otterrebbe stendendo un lenzuolo a contatto con il corpo umano (ad esempio il viso dovrebbe apparire molto più largo).
L'immagine, come si scoprì nel 1898 quando la Sindone fu fotografata per la prima volta, è più comprensibile nel negativo fotografico. Il corpo raffigurato appare quello di un maschio adulto, con la barba e i capelli lunghi. L'immagine presenta numerose ferite: le più evidenti sono le ferite ai polsi e agli avampiedi e una larga ferita da taglio al costato. Inoltre le ferite sul capo corrispondono alla presenza di un casco di spine mentre, sul dorso, ferite da sfregamento sono compatibili con una grossa e rozza trave portata a spalle. Sono state inoltre rinvenute in corrispondenza dei piedi e del naso tracce di terra compatibili con una caduta dalla quale deriverebbe la rottura del setto nasale. Il tutto corrisponde alla tradizionale iconografia di Gesù e al resoconto evangelico della crocifissione.[9]
Il Cristo Velato
Cristo velato: la statua |
Giuseppe Sanmartino, 1753 |
Posto al centro della navata della Cappella Sansevero, il Cristo velato è una delle opere più note e suggestive al mondo. Nelle intenzioni del committente, la statua doveva essere eseguita da Antonio Corradini, che per il principe aveva già scolpito la Pudicizia. Tuttavia, Corradini morì nel 1752 e fece in tempo a terminare solo un bozzetto in terracotta del Cristo, oggi conservato al Museo di San Martino. Fu così che Raimondo de Sangro incaricò un giovane artista napoletano, Giuseppe Sanmartino, di realizzare “una statua di marmo scolpita a grandezza naturale, rappresentante Nostro Signore Gesù Cristo morto, coperto da un sudario trasparente realizzato dallo stesso blocco della statua”. Sanmartino tenne poco conto del precedente bozzetto dello scultore veneto. Come nella Pudicizia, anche nel Cristo velato l’originale messaggio stilistico è nel velo, ma i palpiti e i sentimenti tardo-barocchi di Sanmartino imprimono al sudario un movimento e una significazione molto distanti dai canoni corradiniani. La moderna sensibilità dell’artista scolpisce, scarnifica il corpo senza vita, che le morbide coltri raccolgono misericordiosamente, sul quale i tormentati, convulsi ritmi delle pieghe del velo incidono una sofferenza profonda, quasi che la pietosa copertura rendesse ancor più nude ed esposte le povere membra, ancor più inesorabili e precise le linee del corpo martoriato. La vena gonfia e ancora palpitante sulla fronte, le trafitture dei chiodi sui piedi e sulle mani sottili, il costato scavato e rilassato finalmente nella morte liberatrice sono il segno di una ricerca intensa che non dà spazio a preziosismi o a canoni di scuola, anche quando lo scultore “ricama” minuziosamente i bordi del sudario o si sofferma sugli strumenti della Passione posti ai piedi del Cristo. L’arte di Sanmartino si risolve qui in un’evocazione drammatica, che fa della sofferenza del Cristo il simbolo del destino e del riscatto dell’intera umanità. La Plastinazione di Gunther Von Hagens La plastinazione è un procedimento che permette la conservazione del corpo umano tramite la sostituzione dei liquidi con polimeri di silicone. Questa tecnica rende i reperti organici rigidi ed inodori, mantenendo inalterati i colori. La plastinazione è stata inventata e brevettata dall' anatomopatologo tedesco Gunther von Hagens. Von Hagens espone i corpi plastinati in pose caratteristiche. Nelle mostre, intitolate Körperwelten (in inglese Body World), i corpi alcune volte sono posizionati in maniera tale da ricostruire celebri opere d'arte, mentre altre volte assumono gesti atletici particolari. Infine, vi sono corpi sezionati per puri scopi didascalici. Nel fare assumere le diverse posizioni si fa estrema attenzione alla coerenza del gesto con il posizionamento dei vari elementi anatomici, in primo luogo dei muscoli. Procedura
Il processo di plastinazione richiede in genere 1500 ore di lavoro ed un anno per essere completato. |
Agli inizi del 2011 gli è stato diagnosticato il Parkinson.[1] ora e' guarito
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