Kamita!
Il velo di Maya
Schopenhauer riprende da Kant i concetti di fenomeno e noumeno. Il fenomeno è il prodotto della nostra coscienza, esso è il mondo come ci appare mediante le forme a priori dell'intelletto (tempo, spazio, causalità), mentre il noumeno è la cosa in sé, fondamento ed essenza vera del mondo. Il fenomeno materiale è dunque per Schopenhauer solo parvenza, illusione, sogno: tra noi e la vera realtà è come se vi fosse uno schermo che ce la fa vedere distorta: il velo di Maya di cui parla la filosofia indiana, alla quale Schopenhauer spesso si rifà.
Il mondo dunque è una mia rappresentazione, una mia illusione ottica. Schopenhauer, e qui traspare l'influenza dello studio di Platone, ritiene che la rappresentazione, cioè la realtà che ci si para davanti, sia nient'altro che una fotocopia mal inchiostrata, celante la vera realtà delle cose.
Per poter giungere alla realtà noumenica, quella vera, non si può quindi percorrere la strada della conoscenza razionale, visto che è relegata alla sfera della rappresentazione che in base al quadruplice principio di ragion sufficiente ci mostrerà sempre un mondo totalmente determinato.
Con il sostantivo femminile sanscrito māyā (in devanāgarī माया) si indicano in quella lingua diverse dottrine filosofiche e religiose originarie dell'India nonché, come nome proprio, la madre di Gautama Buddha o uno dei nomi della dea Lakṣmī.
Māyā possiede come significato originario quello di "creazione" indicando anche il relativo potere straordinario. Tale termine deriva dal verbo[1]sanscrito mā nell'accezione di "misurare", "distribuire", "foggiare", "ordinare", "costruire".Il significato originario di māyā è quello di "creazione" ma ha successivamente acquisito il significato di "illusione".
Origine del termine e suoi significati
Nei Veda con il termine māyā si indica il potere da cui ha origine il mondo materiale. Questo potere è proprio dei deva e degli asura che lo utilizzano per trasformare una propria ideazione in una forma concreta, attenta ed efficiente come suggerisce il termine italiano "arte"[2].
Nel Ṛgveda (XV/X secolo a.C.), mediante māyā Varuṇa misura e distribuisce la terra ordinando il mondo fisico:
(SA) « imām ū ṣvā̍surasya̍ śrutasya̍ mahīm māyāṁ varuṇasya pra vocam māneneva tasthivām antarikṣe vi yo mame pṛthivīṁ sūryeṇa » | (IT) « Io voglio celebrare questa grande forza misteriosa di Varuṇa, l'illustre che, collocandosi in piedi nello spazio mediano, ha misurato da un capo all'altro la terra come il sole come se fosse un metro. » |
(Ṛgveda V, 85,5. Traduzione di Saverio Sani in Ṛgveda, Venezia, Marsilio, 2000, pag. 147) |
« Con i poteri della propria māyā Indra si presenta in differenti forme » | |
(Ṛgveda VI, 47,18) |
Con la riflessione teologica e filosofica posteriore ai Veda, in particolare quella delle Upaniṣad (IX/VIII secolo a.C.) si avvia l'intuizione che la realtà fenomenica per sua natura differenziata, proceda da una singola realtà assoluta identificata come Brahman:
Così, ad esempio, il Samāvidhāna Brāhmaṇa:
(IT) « In origine vi era il Brahman soltanto; poiché il succo della sua forza si espandeva, divenne Brahmā. Brahmā meditò in silenzio con la mente e la sua mente divenne Prajāpati » | |
(Samāvidhāna Brāhmaṇa (I,1,3)) |
(SA) « yathā somyaikena mṛtpiṇḍena sarvaṃ mṛnmayaṃ vijñātaṃ syāt vācārambhaṇaṃ vikāro nāmadheyaṃ mṛttikety eva satyam yathā somyaikena lohamaṇinā sarvaṃ lohamayaṃ vijñātaṃ syāt vācārambhaṇaṃ vikāro nāmadheyaṃ loham ity eva satyam yathā somyaikena nakhanikṛntanena sarvaṃ kārṣṇāyasaṃ vijñātaṃ syāt vācārambhaṇaṃ vikāro nāmadheyaṃ kṛṣṇāyasam ity eva satyam evaṃ somya sa ādeśo bhavatīti » | (IT) « "Come è mai, o venerabile, questo insegnamento?". "O caro, come da una zolla d'argilla si conosce tutto ciò che è fatto d'argilla: la forma particolare è questione di parole, è un nome, la realtà è una sola, l'argilla; “o caro, come da una palla di rame si conosce tutto ciò che è fatto di rame: la forma particolare è questione di parole, è un nome, la realtà è una sola, il rame; "o caro, come da un temperino per unghie si conosce tutto ciò che è fatto di ferro: la forma particolare è questione di parole, è un nome, la realtà è una sola, il ferro - così, o caro, è questo insegnamento" » |
(Chāndogya Upaniṣad VI,1,4-6. Traduzione di Carlo Della Casa in Upaniṣad, Torino, Utet, 1983, pagg. 241-2) |
Ne consegue che le differenti forme fenomeniche (meya) prodotte dall'attività creatrice dei deva, ovvero da māyā, sono quindi solo illusioni: māyā.
Nella Śvetāśvatara Upaniṣad, appartenente al Kṛṣṇa Yajurveda (Yajurveda nero), una Upaniṣad vedica piuttosto tarda, coeva o di poco precedente al Buddhismo e comunque antesignana dell'Induismo, l'attività della māyā è propria del grande Signore (maheśvaraṃ) imperituro.
(SA) « chandāṃsi yajñāḥ kratavo vratāni bhūtaṃ bhavyaṃ yac ca vedā vadanti asmān māyī sṛjate viśvam etat tasmiṃś cānyo māyayā saṃniruddhaḥ māyāṃ tu prakṛtiṃ vidyān māyinaṃ tu maheśvaraṃ tasyāvayavabhūtais tu vyāptaṃ sarvaṃ idaṃ jagat » | (IT) « Strofe, offerte, sacrifici, voti, passato, futuro, ciò che dicono i Veda: da ciò il mago (māyin) crea tutto questo universo e in ciò l'altro (l'anima individuale) è tenuto dai lacci dell'illusione (māyā). Bisogna dunque sapere che l'illusione è la natura e il grande Signore (maheśvaraṃ) è il mago. Tutto questo mondo è compenetrato di entità che sono particelle di lui » |
(Śvetāśvatara Upaniṣad IV, 9-10. Traduzione di Carlo Della Casa in Upaniṣad, Torino, Utet, 1983, pag. 408) |
Il Buddhismo Mahāyāna, propugnatore fin dai primi Prajñāpāramitāsūtra (I secolo a.C./I secolo d.C.) della dottrina dello śūnyatā ovvero della "vacuità" di proprietà inerente dei fenomeni (nulla esiste di per sé in quanto tutto è impermanente e correlato agli altri fenomeni), intende la māyā come illusione del mondo fenomenico ovvero come realtà convenzionale (vyāvahārika) che nasconde la realtà assoluta (pāramārtika).
Il velo di Maya
Con l'espressione Velo di Maya, coniata da Arthur Schopenhauer nel suo Il mondo come volontà e rappresentazione, si intendono diversi concetti metafisici e gnoseologici propri della religione e della cultura induista e ripresi successivamente anche da vari filosofi moderni. Arthur Schopenhauer nella propria filosofia sostiene che la vita è sogno sebbene questo "sognare" sia innato (quindi la nostra unica "realtà") e obbedisca a precise regole, valide per tutti e insite nei nostri schemi conoscitivi.
Questo «velo», di natura metafisica e illusoria, separando gli esseri individuali dalla conoscenza/percezione della realtà (se non sfocata e alterata), impedisce loro di ottenere moksha (cioè la liberazione spirituale) tenendoli così imprigionati nel samsara ovverosia il continuo ciclo delle morti e delle rinascite. Similmente alla metafora della caverna di Platone, l'uomo (e quindi l'intera umanità) è presentato come un individuo i cui occhi sono coperti dalla nascita da un velo, liberandosi dal quale l'anima si risveglierà dal letargo conoscitivo (o avidyã, ignoranza metafisica) e potrà contemplare finalmente la vera essenza della realtà.
Le numerose ed eterogenee correnti induiste attribuiscono significati e funzioni differenti a questo concetto: le correnti dualistiche (come ad esempio gli Hare Krishna) la interpretano come il «velo» che separa l'essere individuale dal riscoprire la propria relazione con Dio, che essi identificano con Krishna; mentre presso le scuole moniste (come, ad esempio, l'Advaita Vedānta) questo «velo» è rappresentato dall'identificazione con il corpo, con la mente, con l'intelletto e con la propria stessa individualità, il senso dell'io (ahamkara), ovvero tutto ciò che ricopre e riveste l'Ātman (unica entità eterna ed immortale), impedendo di riconoscere la propria identificazione con esso ed illudendo così l'anima individuale di essere un individuo distinto dal tutto.
Il mito della caverna di Platone è probabilmente il più conosciuto tra i suoi miti, o se si preferisce, allegorie o metafore. Il mito è raccontato all'inizio del libro settimo de La Repubblica (514 b – 520 a).Si immaginino dei prigionieri che siano stati incatenati, fin dall'infanzia, nelle profondità di una caverna. Non solo le membra, ma anche testa e collo sono bloccati, in maniera che gli occhi dei malcapitati possano solo fissare il muro dinanzi a loro.
Si pensi, inoltre, che alle spalle dei prigionieri sia stato acceso un enorme fuoco e che, tra il fuoco ed i prigionieri, corra una strada rialzata. Lungo questa strada sia stato eretto un muricciolo, lungo il quale alcuni uomini portano forme di vari oggetti, animali, piante e persone. Le forme proietterebbero la propria ombra sul muro e questo attrarrebbe l'attenzione dei prigionieri. Se qualcuno degli uomini che trasportano queste forme parlasse, si formerebbe nella caverna un'eco che spingerebbe i prigionieri a pensare che questa voce provenga dalle ombre che vedono passare sul muro.
Mentre un personaggio esterno avrebbe un'idea completa della situazione, i prigionieri, non conoscendo cosa accada realmente alle proprie spalle e non avendo esperienza del mondo esterno (si ricordi che sono incatenati fin dall'infanzia), sarebbero portati ad interpretare le ombre "parlanti" come oggetti, animali, piante e persone reali.
Si supponga che un prigioniero venga liberato dalle catene e sia costretto a rimanere in piedi, con la faccia rivolta verso l'uscita della caverna: in primo luogo, i suoi occhi sarebbero abbagliati dalla luce del sole ed egli proverebbe dolore. Inoltre, le forme portate dagli uomini lungo il muretto gli sembrerebbero meno reali delle ombre alle quali è abituato; persino se gli fossero mostrati quegli oggetti e gli fosse indicata la fonte di luce, il prigioniero rimarrebbe comunque dubbioso e, soffrendo nel fissare il fuoco, preferirebbe volgersi verso le ombre.
Allo stesso modo, se il malcapitato fosse costretto ad uscire dalla caverna e venisse esposto alla diretta luce del sole, rimarrebbe accecato e non riuscirebbe a vedere alcunché. Il prigioniero si troverebbe sicuramente a disagio e s'irriterebbe per essere stato trascinato a viva forza in quel luogo.
Volendo abituarsi alla nuova situazione, il prigioniero riuscirebbe inizialmente a distinguere soltanto le ombre delle persone e le loro immagini riflesse nell'acqua; solo con il passare del tempo potrebbe sostenere la luce e guardare gli oggetti stessi. Successivamente, egli potrebbe, di notte, volgere lo sguardo al cielo, ammirando i corpi celesti con maggior facilità che di giorno. Infine, il prigioniero liberato sarebbe capace di vedere il sole stesso, invece che il suo riflesso nell'acqua, e capirebbe che:
« è esso a produrre le stagioni e gli anni e a governare tutte le cose del mondo visibile e ad essere causa, in certo modo, di tutto quello che egli e suoi compagni vedevano. » | |
(Platone, La Repubblica, libro VII, 516 c - d, trad.: Franco Sartori) |
Resosi conto della situazione, egli vorrebbe senza dubbio tornare nella caverna e liberare i suoi compagni, essendo felice del cambiamento e provando per loro un senso di pietà: il problema, però, sarebbe proprio quello di convincere gli altri prigionieri ad essere liberati. Infatti, dovendo riabituare gli occhi all'ombra, dovrebbe passare del tempo prima che il prigioniero liberato possa vedere distintamente anche nel fondo della caverna; durante questo periodo, molto probabilmente egli sarebbe oggetto di riso da parte dei prigionieri, in quanto sarebbe tornato dall'ascesa con "gli occhi rovinati". Inoltre, questa sua temporanea inabilità influirebbe negativamente sulla sua opera di convincimento ed, anzi, potrebbe spingere gli altri prigionieri ad ucciderlo, se tentasse di liberarli e portarli verso la luce, in quanto, a loro dire, non varrebbe la pena di subire il dolore dell'accecamento e la fatica della salita per andare ad ammirare le cose da lui descritte.
Interpretazione [modifica]
Parlando semplicemente, Platone si riferisce alla scoperta della realtà delle cose che ci circondano: per fare questo, discute sulla natura stessa della realtà. Dopo aver raccontato il mito, però, Platone aggiunge che tutto il ragionamento dietro l'allegoria deve applicarsi a tutto quello di cui si è già discusso nel dialogo: serve, cioè, ad interpretare le pagine che descrivono la metafora del sole e la teoria della linea.
In particolare, Platone paragona il mondo conoscibile, cioè gli oggetti che osserviamo attorno a noi, ...
« ...alla dimora della prigione, e la luce del fuoco che vi è dentro al potere del sole. Se poi tu consideri che l'ascesa e la contemplazione del mondo superiore equivalgono all'elevazione dell'anima al mondo intelligibile, non concluderai molto diversamente da me [...]. Nel mondo conoscibile, punto estremo e difficile a vedere è l'idea del bene; ma quando la si è veduta, la ragione ci porta a ritenerla per chiunque la causa di tutto ciò che è retto e bello, e nel mondo visibile essa genera la luce e il sovrano della luce, nell'intelligibile largisce essa stessa, da sovrana, verità e intelletto. » | |
(Platone, La Repubblica, libro VII, 517 b - c, trad.: Franco Sartori) |
Il sole che brilla all'esterno della caverna rappresenta l'idea del bene e questo passaggio darebbe facilmente l'impressione che Platone la concepisse come una divinità creativa ed indipendente. Normalmente gli uomini sono tenuti prigionieri, costretti ad osservare delle semplici ombre di forme che non sono neanche dei veri oggetti; essi possono essere trovati soltanto "fuori della caverna", cioè nel mondo intelligibile delle forme conosciute dalla ragione e non dalla percezione.
Inoltre, dopo aver fatto ritorno dalla contemplazione del divino alle "cose umane", l'uomo-filosofo rischia di fare una "cattiva figura" se,
« …prima ancora di avere rifatto l'abitudine a questa tenebra recente, viene costretto a contendere nei tribunali o in qualunque altra sede discutendo sulle ombre della giustizia o sulle copie che danno luogo a queste ombre, e a battersi sulla interpretazione che di questi problemi dà chi non ha mai veduto la giustizia in sé. » | |
(Platone, La Repubblica, libro VII, 517 d - e, trad.: Franco Sartori) |
Chiaramente Platone si riferisce, tra le righe, al processo che Socrate dovette subire: tutto il mito, infatti, diviene una metafora della vita del filosofo ateniese, che riuscì a risalire la strada verso la verità, ma venne ucciso per aver tentato di portarla agli uomini, incatenati al mondo dell'opinione.
Una interpretazione ancora più semplicistica mette in parallelo questa allegoria con quella dell'illuminazione. Come prima cosa, l'uomo deve svegliarsi da quel sonno che viene chiamato "vita" (equivalente alla liberazione del prigioniero); in seguito egli si rende conto delle finzioni che l'uomo credeva entità reali (le ombre sulla parte della caverna); infine, egli giunge a vedere la verità per quella che è realmente (il sole ed il mondo all'esterno della caverna). L'istinto dell'uomo è quello di liberare gli altri prigionieri per condividere le sue scoperte, ma questo tentativo è inutile, in quanto i prigionieri non possono e non vogliono vedere oltre le rassicuranti ombre ed attaccano il portatore della verità.
Un'ulteriore interpretazione è stata fatta dagli idealisti. Nella filosofia di George Berkeley, infatti, viene espresso il concetto che gli uomini non conoscano direttamente ed immediatamente i veri oggetti del mondo: piuttosto, noi conosciamo soltanto l'effetto che la realtà esterna ha sulle nostre menti. In altre parole, quando osserviamo un oggetto, noi ne percepiamo solo una copia, una semplice rappresentazione mentale del "vero" oggetto della realtà esterna.
Simbolismo
Ogni aspetto dell'allegoria ha il proprio significato: Platone era fortemente interessato alla politica ed alla sociologia, delle quali si discute, indirettamente, nel mito.
In primo luogo, Platone simboleggia con il sole la fonte della vera conoscenza. In seguito aggiunge che i prigionieri incatenati nella caverna rappresentano la maggior parte dell'umanità: il filosofo è l'uomo liberato, che tenta di portare i suoi compagni verso la conoscenza.
Il significato del mito è duplice: esso può essere letto, infatti, sia in chiave ontologica, sia gnoseologica.
La parte iniziale del mito riprende, infatti, la teoria della linea, già esposta da Platone nei libri precedenti al settimo: il mito della caverna diventa quindi la descrizione della faticosa salita dell'uomo verso la vera conoscenza. La seguente tabella riassume il parallelismo, evidenziando anche il rapporto dimensionale tra le varie parti del segmento.
Teoria della linea | Opinione | Scienza | ||
---|---|---|---|---|
Immaginazione | Fede | Discorso intellettivo | Intellezione | |
Metafora utilizzata nel mito | Ambiente interno della caverna | Mondo esterno alla caverna | ||
L'uomo è prigioniero dell'opinione perché crede passivamente alle immagini delle cose sensibili, cioè le ombre delle forme proiettate sulla parete della caverna. | L'uomo, anche quando osserva direttamente le forme di animali e piante fatte passare dietro il muretto, è ancora legato all'opinione a causa del divenire dell'esistenza. | L'uomo entra nell'intelligibile quando passa dallo scorgere oggetti e uomini nel riflesso dell'acqua all'osservazione diretta. | L'uomo volge lo sguardo alla luce delle stelle e della luna, approdando al mondo della pura intellezione e giungendo a scorgere l'idea del Bene in sé. |
Il mito della caverna nella società moderna e nei media [modifica]
L'idea della liberazione dell'uomo dalle catene della sua esperienza limitata ed il raggiungimento della pura conoscenza della realtà è comune a molte culture; anche le scoperte e le invenzioni che rendono tale il mondo moderno possono essere viste come risultato del tentativo dell'uomo di superare i propri limiti per raggiungere ciò che è oltre la conoscenza del momento. La letteratura, la scultura, il cinema ed in generale tutte le arti sono ricche di storie di uomini che, sfidando l'ostilità dei contemporanei, si sono "liberati dalle catene" dell'opinione arrivando a conoscere la verità e sono poi tornati a riferirla, non sempre guadagnando rispetto ed ammirazione, agli ex compagni di prigionia. Inoltre, nel Novecento il mito della caverna è divenuta una metafora che simboleggia quanto i mass media influenzino e dominino l'opinione pubblica, interponendosi tra l'individuo e la notizia, manipolando quest'ultima secondo necessità.
- Nel film Il conformista di Bernardo Bertolucci, ambientato durante il Ventennio, un vecchio professore si serve del mito della caverna per illustrare la condizione di accecamento morale e politico prodotta dal fascismo.
- Nella trilogia Matrix, la razza umana è controllata e sfruttata dalle macchine, che fanno credere loro di vivere liberamente nel mondo del XX secolo, mentre in realtà la tengono imprigionata, coltivando uomini e donne per trarne l'energia necessaria alla loro sopravvivenza meccanica. La gente vive senza accorgersi minimamente della realtà perché vive collegata ad un sistema informatico, chiamato appunto Matrix dai dissidenti, che invia impulsi elettrici al cervello umano, convincendo gli uomini di vivere in un mondo che, in realtà, non esiste più da centinaia di anni. Spetterà al Prescelto, Neo, liberarsi dall'illusione biochimica e, con l'aiuto dei ribelli, ritornare nel sistema per tentare di liberare la razza umana dal controllo delle macchine. Sia il finale del primo film con il dialogo di Neo al telefono, sia il comportamento del personaggio di Cypher, lasciano tuttavia intendere che, anche messi di fronte alla realtà delle cose, non tutti gli uomini saranno disposti ad abbandonare la loro "prigionia", preferendo la tranquillità e la sicurezza della loro vita illusoria.
- È simile il riferimento al mito in WALL•E, film di animazione in cui l'umanità è rinchiusa in un'astronave, incapace di deambulare, finché il capitano dell'astronave non si ribella al "pilota automatico" e riporta la nave verso Terra.
- Nel film The Truman Show, il protagonista crede di vivere in una tranquilla cittadina americana; è abituato a considerare "reali" i suoi amici, il suo lavoro, il suo paese, la sua fidanzata. In realtà egli vive, fin dalla nascita, in un reality show televisivo di cui è l'unico inconsapevole protagonista e le persone con le quali ogni giorno comunica sono semplicemente delle comparse del programma.
- Nel film Il tredicesimo piano, viene trovato morto un famoso programmatore di mondi virtuali, immense simulazioni di città del passato abitate da esseri virtuali con personalità umana. L'unico indizio sul delitto è stato lasciato all'interno di uno di questi mondi ed un collega della vittima dovrà entrarvi per recuperarlo, facendo attenzione a non rivelare alle entità in esso viventi la loro reale situazione: se, infatti, una di queste entità scoprisse la verità, le conseguenza sarebbero imprevedibili.
- In Arancia Meccanica, il protagonista Alex è sottoposto alla "cura Ludovico"; legato con una camicia di forza ad una sedia, la testa fissata con lacci e gli occhi tenuti aperti forzosamente, è costretto a guardare per ore la proiezione di filmati estremamente violenti dagli scienziati che decidono per lui cosa è bene e cosa è male. Come incatenato nella caverna, può solo guardare sulla parete ombre proiettate dagli artefici/giganti.[1]
- In Tutta la vita davanti c'è un richiamo diretto al mito della caverna. La protagonista Marta, laureata in filosofia, prima lo racconta alla piccola Lara e poi, venendo delusa da Giorgio, il sindacalista, gli dice che lo riteneva l'uomo che l'avrebbe salvata dalla caverna.
- Nel libro La caverna Saramago rivisita il mito della caverna, e lo porta ai giorni nostri. È la storia di un vasaio cui viene rifiutata la solita fornitura di stoviglie da parte del Centro - una città-centro commerciale quasi infinita e maligna. L'artigiano si troverà cosí costretto a inventarsi un altro prodotto e, soprattutto, a confrontarsi con il Centro stesso.
- Una tematica simile è sviluppata nell'anime di fantascienza Zegapain (ZEGAPAIN -ゼーガペイン-) in cui il progatonista scopre che il genere umano, così come credeva di conoscerlo, non esiste più e gli ultimi sopravvissuti sulla Terra vivono sotto forma di apparizioni virtuali in enormi elaboratori quantistici che simulano la vita di intere città (ognuna immagazzinata in un server) e ignorano la verità del mondo esterno. I nemici contro cui il protagonista e i suoi compagni combattono a bordo di grandi robot antropomorfi (mecha), nella speranza di una futura "resurrezione" o "risveglio", sono esseri umani evoluti capaci di rigenerarsi e privi di individualità ed emozioni, che tentano di adattare la Terra alle proprie necessità e di eliminare i resti della vecchia civiltà umana.
- Nel film V per Vendetta la protagonista Evey Hammond viene imprigionata e torturata per estorcerle delle informazioni. Poi si scoprirà che quel luogo di prigionia era solo un'illusione creata dal suo mentore V affinché Evey potesse liberarsi dalle paure che la tenevano incatenata.
- Nel film Dark City il protagonista John scopre che la città in cui vive è in realtà un laboratorio extraterrestre. Gli alieni stanno conducendo esperimenti sugli esseri umani per carpirne il segreto dell'individualità.
- Nel film Essi vivono il protagonista John Nada trova degli strani occhiali da sole che gli permettono di vedere la verità: gli alieni hanno invaso la terra e mediante il controllo sui mass media stanno sottomettendo gli esseri umani.
- CYBERSPAZIO
- Il cyberspazio o ciberspazio (in inglese cyberspace) è il dominio caratterizzato dall'uso dell'elettronica e dello spettro elettromagnetico per immagazzinare, modificare e scambiare informazioni attraverso le reti informatiche e le loro infrastrutture fisiche. È visto come la dimensione immateriale che mette in comunicazione i computer di tutto il mondo in un'unica rete che permette agli utenti di interagire tra loro,[1] ossia come lo «"spazio concettuale" dove le persone interagiscono usando tecnologie per la comunicazione mediata dal computer (computer mediated communication, CMC)».[2] È oggi comunemente utilizzato per riferirsi al "mondo di Internet" in senso generale. E' insomma l'archetipo dell'inconscio collettivo. E Kamita parte da questo concetto.Il termine (una parola macedonia composta da cibernetica e spazio) compare nella prima metà degli anni ottanta nella fantascienza cyberpunk di William Gibson,[3] dove il cyberspazio comprende vari tipi di realtà virtuale condivisa da utenti profondamente immersi in tali dimensioni, o da entità che sussistono all'interno dei sistemi informatici.Il termine cyberspace (cyberspazio) fu coniato da William Gibson, scrittore canadese esponente di punta del filone cyberpunk, per il suo romanzo breve La notte che bruciammo Chrome (Burning Chrome) pubblicato nel 1982 sulla rivista Omni e fu in seguito reso noto dal suo romanzo Neuromante (Neuromancer, 1984),[4] nel quale è così descritto:
« Cyberspazio: un'allucinazione vissuta consensualmente ogni giorno da miliardi di operatori legali, in ogni nazione, da bambini a cui vengono insegnati i concetti matematici... Una rappresentazione grafica di dati ricavati dai banchi di ogni computer del sistema umano. Impensabile complessità. Linee di luce allineate nel non-spazio della mente, ammassi e costellazioni di dati. Come le luci di una città, che si allontanano [...]. » Gibson più tardi commentò l’origine del termine nel documentario del 1996 No Maps for These Territories:« Tutto quello che so riguardo al termine "cyberspace" quando lo coniai, era che esso rassomigliava effettivamente ad un termine in voga. Sembrava evocativo e essenzialmente privo di significato. Era indicativo di qualcosa, ma non aveva nessun significato semantico vero, anche per me, poiché lo vidi emergere mentre lo stavo scrivendo nella pagina. » Gibson coniò anche il termine meatspace (spazio della carne) per indicare il mondo fisico, contrapposto al cyberspazio.Estensione metaforica
Il termine cyberspazio iniziò a divenire de facto sinonimo di Internet e in seguito di World Wide Web durante gli anni novanta, specialmente nei circoli accademici[3] e nelle comunità di attivisti. Lo scrittore e giornalista Bruce Sterling, che rese popolare questo significato,[5] accreditò John Perry Barlow per essere stato il primo ad usare questo termine per riferirsi al "nesso attuale tra il computer e i network delle telecomunicazioni". Barlow lo descrive così per annunciare la formazione dell’EFF o Electronic Frontier Foundation (da notare la metafora spaziale) nel giugno del 1990:[6]« In questo mondo silenzioso, tutta la comunicazione è digitata. Per entrare in esso, ci si deve liberare sia del corpo che dell’ambiente circostante e si diviene solo una cosa fatta di parole. Si può vedere quello che i nostri interlocutori stanno dicendo (o che hanno detto di recente), ma non come sono loro fisicamente, né il luogo dove si trovano. Gli incontri in questa città virtuale sono continui e le discussioni variano dagli ambiti sessuali ai programmi di deprezzamento. Se sia un singolo trillo telefonico o milioni, essi sono tutti connessi fra di loro. Collettivamente, formano ciò che gli abitanti della città virtuale chiamano la Rete. Essa si estende attraverso l’immensa regione dello stato di elettroni, microonde, campi magnetici, luci intermittenti che lo scrittore di fantascienza William Gibson battezzò Cyberspazio. » (John Perry Barlow, Crime and Puzzlement)Mentre Barlow e l’EFF continuarono nei loro sforzi pubblici per promuovere l’idea dei "diritti digitali", il termine fu sempre più utilizzato durante il boom di Internet alla fine degli anni novanta.Mentre il cyberspazio non dovrebbe essere confuso con la rete Internet vera e propria, il termine è spesso usato per riferirsi ad oggetti ed identità che esistono ampiamente all'interno della comunicazione dei network stessa, cosicché un sito web, per esempio, si potrebbe dire metaforicamente che "esiste nel cyberspazio". Secondo con questa interpretazione, gli eventi che hanno luogo su Internet non sono in atto nei paesi dove si trovano fisicamente i partecipanti o i server, ma "nel cyberspazio".« Cyberspazio è il "luogo" nel quale sembra accadere una conversazione telefonica. Non all’interno del vostro reale telefono, l’apparecchio in plastica o altro materiale che si trova nella vostra scrivania. Non all’interno del telefono dell’altra persona, che si trova in una qualche altra città. Lo spazio tra i telefoni. ...negli ultimi venti anni trascorsi, questo "spazio" elettrico, che era un tempo sottile e scuro e uni-dimensionale – poco più di uno stretto tubo parlante, che si allungava con un filo da telefono a telefono, si è praticamente espanso, schizzando fuori come un gigantesco joker dentro la scatola, la luce lo ha inglobato, sotto forma di luce tremolante dello schermo di un computer. Questo mondo scuro e nascosto rappresentato dal piccolo ricevitore telefonico connesso tramite un filo alla rete si è trasformato in un vasto e fiorente paesaggio elettronico. Dagli anni sessanta, il mondo del telefono è divenuto ibrido con i computer e la televisione, e sebbene non vi sia ancora alcuna sostanza di cyberspazio, nulla che si possa maneggiare, esso ora ha uno strano tipo di fisicità. È buonsenso oggi parlare di cyberspazio come un luogo a sè stante. » (Bruce Sterling, introduzione al libro Giro di vite contro gli hacker (The Hacker Crackdown))Lo "spazio" nel cyberspazio ha più in comune con l’astratto significato matematico del termine (vedasi Spazio (matematica)) che con lo spazio fisico. Non possiede il dualismo del volume positivo e negativo (mentre nel mondo fisico, ad esempio una stanza possiede il volume negativo dello spazio utile delineato dal volume positivo dei muri, gli utenti di Internet non possono entrare nello schermo ed esplorare la parte sconosciuta della rete come estensione dello spazio nel quale essi si trovano), ma il significato spaziale può essere attribuito alla relazione tra le differenti pagine (dei libri così come dei webserver), considerando le pagine non girate come presenti da qualche parte "là fuori." Il concetto di cyberspazio quindi si riferisce non al contenuto presentato al navigatore, ma piuttosto alla possibilità di navigare tra differenti siti, tramite i cicli di feedback tra l’utente ed il resto del sistema che crea così il potenziale di incontrare sempre qualcosa di inatteso e sconosciuto.Alcune comunità virtuali si riferiscono esplicitamente al concetto di cyberspazio: ad esempio il Linden Lab chiama i suoi clienti "Residenti" di Second Life, mentre tutte queste comunità possono essere posizionate "nel cyberspazio" per compiti illustrativi e comparativi (come fece Sterling nel libro Giro di vite contro gli hacker e molti giornalisti dopo di lui), integrando la metafora con una più ampia cyber-cultura.La metafora è stata utile per aiutare una nuova generazione di maestri di pensiero a ragionare attraverso nuove strategie militari nel mondo, condotti largamente dal Dipartimento della difesa degli Stati Uniti (US Department of Defense, DoD).[7] L'uso del cyberspazio come metafora ha avuto limitazioni proprie, tuttavia, specialmente nelle aree dove la metafora si confonde con le infrastrutture fisiche.[8]Realtà alternative in filosofia e arte
Computer predatori
Prima che il cyberspazio divenisse una possibilità tecnologica, molti filosofi suggerirono la possibilità dell’esistenza di una realtà "virtuale" simile al cyberspazio. Nella Repubblica, Platone precisa la sua allegoria della caverna, ampiamente citata come una delle prime realtà concettuali. Egli suggerisce che noi siamo già in una forma di realtà "virtuale" della quale siamo illusi nel pensare che sia vera. La vera realtà per Platone è accessibile soltanto attraverso l’allenamento mentale ed è la realtà delle forme. Queste idee sono centrali nel platonismo e neoplatonismo.Un altro precursore delle idee moderne del cyberspazio è Cartesio, nel suo pensiero che il popolo sia ingannato da un demone malefico che lo nutre con una falsa realtà. Questo argomento è il diretto predecessore delle idee moderne di cervello in un contenitore (brain in a vat) e molte concezioni popolari del cyberspazio prendono ispirazione dalle idee di Cartesio.Le arti visive hanno una tradizione, che parte dai pittori greci Zeusi e Parrasio, di artefatti intesi come trompe-l'oeil che possono essere confusi con la realtà. Questo interrogarsi sulla realtà occasionalmente portò alcuni filosofi e (specialmente) teologi a screditare l’arte come ingannatrice del popolo in quanto fa entrare in un mondo che non è reale (posizione a volte sfociata nell'aniconismo). La sfida artistica risorse tramite una crescente ambizione di verosimiglianza e l’arte divenne sempre più realistica con l’invenzione della fotografia, del cinema (come nel caso de L'arrivo di un treno alla stazione di La Ciotat) ed infine alle simulazioni immersive al computer.Influenza del computer
Filosofia
Gli esponenti americani della controcultura come William S. Burroughs (la cui influenza letteraria su Gibson ed il cyberpunk in generale è ampiamente conosciuta[9][10]) e Timothy Leary [11] furono tra i primi ad esaltare il potenziale dei computer e delle reti di computer per il rafforzamento dell’individuo.[12]Alcuni filosofi e scienziati contemporanei (ad es. David Deutsch nel suo La trama della realtà (The Fabric of Reality, 1997)[13] impiegano la realtà virtuale in vari esperimenti di pensiero. Per esempio Philip Zhai in Get Real: A Philosophical Adventure in Virtual Reality (Divieni reale: un’avventura filosofica nella realtà virtuale) connette il cyberspazio alla tradizione platonica:« Immaginiamo una nazione nella quale ognuno è collegato ad una rete di infrastrutture di RV [realtà virtuale]. Essi sono stati collegati dal momento in cui lasciarono il grembo materno. Immersi nel cyberspazio e mantenendo la propria vita per mezzo della telepresenza, essi non hanno mai immaginato che la vita potesse essere molto diversa da quella che vivevano. La prima persona che pensa alla possibilità di un mondo alternativo come il nostro sarebbe presa in giro dalla maggioranza dei cittadini, proprio come i pochi illuminati dell’allegoria della caverna di Platone. » Notare che questo argomento da cervello in un contenitore fa confluire il cyberspazio nella realtà, mentre la descrizione più comune del cyberspazio contrasta con il "mondo reale".da wikipedia grazieIn philosophy, the brain in a vat is an element used in a variety of thought experiments intended to draw out certain features of our ideas of knowledge, reality, truth, mind, and meaning. It is drawn from the idea, common to many science fiction stories, that a mad scientist, machine or other entity might remove a person's brain from the body, suspend it in a vat of life-sustaining liquid, and connect its neurons by wires to asupercomputer which would provide it with electrical impulses identical to those the brain normally receives. According to such stories, the computer would then be simulating reality (including appropriate responses to the brain's own output) and the person with the "disembodied" brain would continue to have perfectly normal conscious experiences without these being related to objects or events in the real world.The simplest use of brain-in-a-vat scenarios is as an argument for philosophical skepticism and solipsism. A simple version of this runs as follows: Since the brain in a vat gives and receives exactly the same impulses as it would if it were in a skull, and since these are its only way of interacting with its environment, then it is not possible to tell, from the perspective of that brain, whether it is in a skull or a vat. Yet in the first case most of the person's beliefs may be true (if he believes, say, that he is walking down the street, or eating ice-cream); in the latter case they are false. Since the argument says one cannot know whether he or she is a brain in a vat, then he or she cannot know whether most of his or her beliefs might be completely false. Since, in principle, it is impossible to rule out oneself being a brain in a vat, there cannot be good grounds for believing any of the things one believes; a skeptical argument would contend that one certainly cannot know them, raising issues with the definition of knowledge.The brain in a vat is a contemporary version of the argument given in Buddhist Maya illusion, Plato's Allegory of the Cave, Zhuangzi's "Zhuangzi dreamed he was a butterfly", and the evil demon in René Descartes' Meditations on First Philosophy.[not verified in body]Philosophical responses
Such puzzles have been worked over in many variations by philosophers in recent decades. American philosopher Hilary Putnam popularized the modern terminology over Descartes's "evil demon," although it brings up such complications and objections as whether the mind is reducible to the workings of a brain. Some, including Barry Stroud, continue to insist that such puzzles constitute an unanswerable objection to any knowledge claims.[1] Hilary Putnam, in his 1981 book Reason, Truth, and History, argued against the special case of a brain born in a vat, using a line of argument he drew from Wittgenstein.[2] In the first chapter of his book, Putnam claims that the thought experiment is inconsistent on the grounds that a brain born in a vat could not have the sort of history and interaction with the world that would allow its thoughts or words to be about the vat that it is in.In other words, if a brain in a vat stated "I am a brain in a vat", it would always be stating a falsehood. If the brain making this statement lives in the "real" world, then it is not a brain in a vat. On the other hand, if the brain making this statement is really just a brain in the vat then by stating "I am a brain in a vat" what the brain is really stating is "I am what nerve stimuli have convinced me is a 'brain,' and I reside in an image that I have been convinced is called a 'vat'." That is, a brain in a vat would never be thinking about real brains or real vats, but rather about images sent into it that resemble real brains or real vats. This of course makes our definition of "real" even more muddled. This refutation of the vat theory is a consequence of his endorsement, at that time, of the causal theory of reference. Roughly, in this case: if you've never experienced the real world, then you can't have thoughts about it, whether to deny or affirm them. Putnam contends that by "brain" and "vat" the brain in a vat must be referring not to things in the "outside" world but to elements of its own "virtual world"; and it is clearly not a brain in a vat in that sense. One of the other problems is that the supposed brain in a vat cannot have any evidence for being a brain in a vat, because that would be saying "I have what nerve stimuli have convinced me is evidence to my being a brain in a vat" and also "Nerve stimuli have convinced me of the fact that I am a brain in a vat".[citation needed]Many writers have found Putnam's proposed solution unsatisfying, as it appears, in this regard at least, to depend on a shaky theory of meaning: that we cannot meaningfully talk or think about the "external" world because we cannot experience it sounds like a version of the outmoded verification principle.[3] Consider the following quote: "How can the fact that, in the case of the brains in a vat, the language is connected by the program with sensory inputs which do not intrinsically or extrinsically represent trees (or anything external) possibly bring it about that the whole system of representations, the language in use, does refer to or represent trees or any thing external?" Putnam here argues from the lack of sensory inputs representing (real world) trees to our inability to meaningfully think about trees. But it is not clear why the referents of our terms must be accessible to us in experience. One cannot, for example, have experience of other people's private states of consciousness; does this imply that one cannot meaningfully ascribe mental states to others? [4] In effect, Putnam demonstrates that the state of being an envatted brain is invisible and indescribable from within, but it is unclear that this semantic victory goes far to address the problem in relation to knowledge. [5]Subsequent writers[who?] on the topic have been particularly interested in the problems it presents for content: that is, how - if at all - can the brain's thoughts be about a person or place with whom it has never interacted and which perhaps does not exist.[citation needed]
Nessun commento:
Posta un commento