L’esistenza è il corpo. Conversazione con David Cronenberg
‘Un viaggio filosofico in cui rifletto sulla vita e sulla condizione umana e
invito il pubblico a farlo con me’: questo è il cinema per David Cronenberg.
Profeta delle avventure dell’incontro del nostro corpo con la tecnologia,
della carne con il metallo e la plastica.
E indagatore dell’uomo a partire dal suo aspetto più universale: la mortalità.
a cura di Mario Sesti, da MicroMega 6/2010
David Cronenberg venne a Roma nell’ottobre del 2008 per esporre i 50 fotogrammi di Chromosomes: la sua prima mostra da artista e creatore puro, fatta di 50 inquadrature dei suoi film, elaborate al computer e trasformate in opere d’arte per una mostra che ebbe luogo durante il Festival di Roma, al Palazzo delle Esposizioni (il direttore di Cannes, Thierry Frémaux, venne nella capitale, un solo giorno, solo per vedere questa mostra). Era una sorta di endoscopia all’interno del cinema di uno degli autori più originali e sorprendenti dell’immaginazione, e non solo del cinema, contemporanei. Chi l’ha vista sa che a volte si trattava di interventi di microchirurgia sulla pelle del proprio cinema (i dettagli delle mani), a volte erano l’equivalente di stemmi araldici del proprio universo immaginario (la vestizione di Jeremy Irons in Inseparabili, come se fosse il cardinale di un diabolico rito uterino), a volte ritagliavano uno sguardo e non solo degli oggetti (da Crash, da Inseparabili, da La promessa dell’assassino, per esempio), a volte, da sole, innescavano un racconto (Spider, M. Butterfly), a volte, semplicemente, sottolineavano ambienti e design (La mosca, eXistenZ) con lo stesso implacabile nitore con il quale la luce di un frigorifero inonda uno yogurt o un tubetto di maionese al proprio interno. È come se Cronenberg avesse fatto dei prelievi dentro i propri film e in ciascuno di essi scoprisse qualcosa di prezioso e segreto che egli stesso scruta con più attenzione e stupore di quanto avesse potuto fare quando dava vita a quelle immagini su un set. Endoscopia, prelievi, sezioni. Non è un lessico casuale per chi ha intimità con il mondo di questo regista che ha iniziato raccontando di medici borderline, ha studiato biologia e ha istruito, con Inseparabili, un indimenticabile dramma da camera (operatoria) con protagonisti due gemelli ginecologi. Profeta delle avventure dell’incontro del nostro corpo con la tecnologia, della carne con il metallo e la plastica, anche da artista sembra impegnato a capire se essi, insieme, saranno davvero capaci di fondersi in un linguaggio completamente diverso da quello da noi conosciuto fino ad oggi. Tra i pochissimi registi a essersi imposto nel cinema di genere (l’horror) per poi essere riconosciuto dalla critica come autore dotato di un mondo e di uno stile inconfondibili, Cronenberg ha affrontato la grande letteratura di Burroughs, Ballard, McGrath, ha dato vita a un cinema che pesca nell’inquietudine del futuro e delle mutazioni del corpo, ma anche nella profondità capillare dei sentimenti, nella pietà della passione, nell’allucinazione della solitudine: il suo occhio clinico sa vivere, imperturbabile, l’intensità di ogni emozione (paura, disgusto, desiderio, amore, dolore) senza disperderla ma anche senza compromettere il rigore e la precisione dell’occhio. Quella che segue è la stesura della conversazione che si è tenuta a Roma, al Festival del Cinema del 2008, di fronte a giornalisti, spettatori, appassionati, condotta da chi scrive e Antonio Monda.
Lei è uno dei maestri riconosciuti del genere horror e anche uno tra coloro che più efficacemente hanno contribuito a rivoluzionarlo. Vorrei sapere se, secondo lei, in questo genere sia più efficace o, in altre parole faccia più paura, mostrare o meno?
Il non mostrare è sempre stato una sorta di luogo comune sostenuto da coloro che non amano vedere sullo schermo immagini disturbanti e situazioni molto fisiche. Io penso sempre a Hitchcock, un vero maestro nel risvegliare la paura non mostrando le cose; però penso anche al suo film Frenzy che è estremamente violento, anche sessualmente intendo, al punto di far vedere la scena di uno stupro in cui un uomo strangola una donna usando la propria cravatta. Una scena in cui si mostra ogni cosa. La ragione per cui Hitchcock non esponeva le cose è che allora non gli era consentito; a quei tempi negli Stati Uniti era vietato mostrare determinate scene, quando però lui ebbe la possibilità di farlo diede libero sfogo alla sua volontà e al suo desiderio. Mostrare cose scomode, orribili e indicibili implica che queste alberghino nella propria coscienza, il che significa il doversi confrontare con se stessi e con la realtà, riconoscendo che gli esseri umani sono capaci di fare certe cose. Mostrarle o meno dipende però anche dal tipo di film che si realizza. The Dead Zone (La zona morta, 1983), ad esempio, è un film in cui compaiono alcune scene di violenza ma è un tipo di film diverso. Per certi versi, infatti, è il film a dire le proprie esigenze, perché inizia a vivere una propria vita organica e chiede quello di cui ha bisogno al punto da rendere impossibile imporgli cose ad esso incompatibili. Questo è semplicemente il rapporto tra l’artista e la sua creazione. Dopo aver diretto The Dead Zone, la gente ha iniziato ad affermare: «Cronenberg è divenuto più sadico, più simile a Hitchcock», successivamente però ho girato The Fly (La mosca, 1986) che è realizzato in quel modo semplicemente perché è un tipo di film diverso. È più legato al corpo umano e alla malattia. Al tempo in cui questo film fu realizzato, la gente volle associarlo al tema dell’Hiv. Io risposi che una malattia come l’invecchiamento è ancor più diffusa dell’Aids. Secondo me la forza di questa pellicola è dovuta al fatto che tratta un tema con cui dobbiamo tutti confrontarci perché, se viviamo abbastanza a lungo, affrontiamo tutti la disintegrazione dei nostri corpi e, per gli esseri umani, è sempre difficile accettare la propria estinzione. Quello che credo di affrontare nei miei film è anche la mia mortalità.
Penso che Dead Ringers (Inseparabili, 1988) sia uno dei suoi film più belli e misteriosi, oltre ad avere una delle più belle colonne sonore di Howard Shore. Sicuramente tra le più originali. Nella pellicola c’è poi una delle più sorprendenti teorie della forma: lei fa dire a uno dei personaggi che se si potesse vedere il corpo umano dall’interno, esso avrebbe una bellezza – di colori, forme e strutture – forse ancor più interessante di quella a cui siamo abituati. È un po’ come dire che la nostra concezione della bellezza è stata dominata dall’arte classica, da Fidia e dalla grande arte antica, per intenderci, ma ce ne potrebbe anche essere una completamente diversa che riguarda il corpo e che è a noi completamente sconosciuta. Uno dei gemelli, Elliot, afferma: «Perché non ci sono concorsi di bellezza per l’interno del corpo umano ma solo per il suo esterno?» e significa che non abbiamo ancora affrontato la totalità di ciò che siamo. Secondo me, il corpo è il fattore primario dell’esistenza umana. Ed è facile perdere di vista questo fatto perché vi sono numerose forze nella cultura e nella società che tentano di sviare l’attenzione da questa realtà, e ovviamente intendo la religione, molta arte, il lavoro e le interazioni sociali. Molte sono le cose che ci aiutano a evadere dalla realtà del corpo umano che per me, ateo che non crede a una vita ultraterrena e allo spirito che vive separatamente dal corpo, è un’evasione dalla realtà della condizione umana. Ne comprendo la ragione, perché è davvero qualcosa molto difficile da affrontare. Fondamentalmente si tratta della mortalità e la morte, unitamente alla nostra estinzione, sono cose difficili da immaginare. Come la propria inesistenza. È quindi assai più facile inventare un’esistenza che proseguirà nonostante tutto. Detto questo, come accennavo prima, parte di quel che faccio nella mia attività di regista è provare ad affrontare la mia mortalità ovvero quello che è l’esistenza umana. Mi considero un esistenzialista, cosa che oggi è davvero fuori moda, contrariamente a quanto avveniva un tempo. Ovviamente anche del mio esistenzialismo ho un’interpretazione personale: vivere la vita autentica essenzialmente significa affrontarla con una reale comprensione della realtà della condizione umana. Molto difficile a farsi ma credo questa sia una delle cose che vado esplorando in tutti i miei film, si pensi a eXistenZ, e naturalmente a Dead Ringers, realizzato prima dell’avvento del computer. In quest’ultimo si tratta il tema dell’identità così come anche nel film Spider. Io ritengo si debba lavorare molto per conservare un’identità, perché non è qualcosa con cui si nasce bensì qualcosa che l’uomo crea, un atto creativo. Ogni mattino, al risveglio, si ricompone quell’identità e si deve lavorare molto per conservarla. Lo si può vedere in tutte quelle persone che hanno smarrito la volontà di mantenere una personalità, lo si scorge nella schizofrenia o in molte condizioni mentali in cui la volontà di tenere assieme la personalità viene meno e ci si disintegra.
Lei ha spiegato che il mostrare i corpi dilaniati sia un modo per raccontare qualcosa che è intrinseco alla vita umana, alla mortalità dell’uomo. Vedendo i suoi film, però, mi chiedo se lei non pensi che l’uomo sia intrinsecamente anche violento, se sia impossibile per un uomo o una donna sfuggire alla propria violenza.
Sono riuscito a sfuggire alla violenza facendo film. È evidente che vi sia una parte innata della natura umana che è violenta, non si deve certo essere dei geni per intuirlo. Siamo animali, dopotutto, nonostante l’intelligenza che ci contraddistingue, l’inventiva e il nostro linguaggio, il pollice prensile e così via. Rimaniamo sempre estremamente violenti. La differenza tra noi e gli altri animali è che noi possiamo osservare questa violenza, meditarci e specularci sopra e considerare la possibilità di vivere facendone a meno, nonostante non siamo mai riusciti a farlo. Molte persone mi hanno detto: «I tuoi film sono estremamente violenti», ma rispetto ai comuni film d’azione il numero degli atti di scontro nei miei lavori è estremamente ridotto. Se si considera la durata delle scene, la maggior parte dei miei film in effetti ritrae persone che parlano. Dal momento che considero molto seriamente la violenza, però, e non la ritengo una forma di intrattenimento, comprendo che quei momenti hanno un significativo impatto sul pubblico che reagisce vigorosamente a certe immagini – come ad esempio alla visione grottesca di una mandibola distrutta. Per certi versi il senso di quelle scene sta nel fatto che il pubblico gradisce vedere il cattivo che viene ucciso ma allo stesso tempo resta scioccato quando vede che si spara in testa a qualcuno, perché è un’immagine estremamente efferata.
A History of Violence tratta l’aspetto sociale della violenza in un modo che i lavori precedenti hanno fatto in maniera più metaforica perché, nella maggior parte dei miei film, essa aveva una componente fantascientifica che credo protegga le persone. Per certi versi, il genere fantascientifico o l’horror difendono il pubblico, gli consentono di esperire ogni cosa pur restandone a distanza proprio perché le storie non si presentano in forma realistica, come leggendole su un quotidiano. In un film come A History of Violence, invece, si ha a che fare con la violenza sociale in un modo più realistico, privo quindi di quella protezione data dall’elemento fantastico, cosa di cui ero ben consapevole durante la sua realizzazione. Io sono non violento. Non mi diverte la violenza che in vita mia ho solo vista sulle strade una o due volte. È estremamente scioccante, anche quando si tratta di una semplice scazzottata. Per non parlare della sola volta in cui sono stato preso a pugni, durante un trip sotto effetto di Lsd, posso solo dire che fu la cosa più violenta che mi sia capitata. Ero però anestetizzato dalla droga e alla fine non mi fece così male.
Potrà sembrare naïf e ingenuo ma il primo aspetto che si nota è che lei come persona sembra emanare un senso di serenità e di tranquillità, la stessa che appare anche nei suoi film, assieme a qualcosa di molto inquietante. Soprattutto i suoi primi lavori sono stati immediatamente contraddistinti da questa caratteristica: producevano delle reazioni piuttosto evidenti nelle persone, nel pubblico. Inizialmente sembrano proprio concepiti per far reagire le persone in termini di disgusto e paura. So che tutti i film horror lo fanno ma, rivedendo ora il suo cinema che si è evoluto in questa maniera, si ha l’impressione che lei, sin dagli esordi, avesse ben chiara questa diversa tastiera, ovvero la possibilità che si ha col cinema di generare reazioni anche fisiche, corporee.
Credo siano molti i registi che hanno iniziato a lavorare con il genere horror tra cui anche Francis Ford Coppola, il cui primo film era un horror; Scorsese realizzò alcuni gangster-movie; Kubrick iniziò realizzando film di genere. E a pensarci oggi, sembrò una strategia astuta iniziare con questi horror a basso costo che avevano un loro mercato mentre i gangster-movie o i film d’autore a basso costo non avevano alcun pubblico. Si tratta però di quello che volevo fare davvero. Avevo realizzato un paio di film d’essai che furono presentati a festival cinematografici, lungometraggi underground da 65’, ma anche quelli erano un po’ fantascientifici. Il primo trattava il tema della telepatia e il secondo dei crimini del futuro. Quando iniziai a girare Shivers (Il demone sotto la pelle, 1975) feci proprio quello che volevo; non avevo alcuna strategia, non pensai a come riuscire a realizzare un film o a quale fosse il modo migliore per iniziare a farlo. Era esattamente il mio desiderio, era la mia sensibilità. Amavo il tipo di creatività che puoi permetterti in un film horror o di fantascienza. Puoi inventarti fisiologie, tipi diversi di creature e questo mi affascinava molto. Nel mio secondo film Rabid (Rabid – Sete di sangue, 1977), infatti, inventai ricerche sulle cellule staminali. In quella pellicola inventai davvero alcune cose che immaginavo fossero possibili ma allora non lo erano ancora: l’idea che si potesse avere un tessuto umano che fosse neutro e che potesse trasformarsi in un tipo qualsiasi di organo o tessuto del corpo. Tutto questo appare in Rabid che risale alla fine degli anni Settanta e quel tipo di ricerca è divenuto realtà soltanto negli ultimi due anni. Ma esiste. Dalle indagini fatte potei prevedere che si trattava di una possibilità concreta. Mi piaceva quella occasione di inventare. Per questo non concepirei l’horror come modo per suscitare una reazione dal pubblico; se si guarda quei film, si comprende che sono anche molto filosofici. Il mio lavoro di regista è come un viaggio filosofico in cui rifletto sulla vita e sulla condizione umana e invito il pubblico a farlo con me. Non ho mai provato la sensazione di Hitchcock di essere un burattinaio, di manipolare il pubblico. Egli sosteneva di poterlo far saltare, ridere e piangere a comando e a lui tutto questo piaceva. Questo non è il processo in cui sono impegnato. In quei film, io parlavo a me stesso e quel che dicevo era qualcosa di spaventoso. Terrorizzavo innanzitutto me stesso e poi chiedevo al pubblico di esprimere la propria reazione. Questo, secondo me, è il processo creativo.
Vedendo in parallelo la sequenza nella sauna di Eastern Promises (La promessa dell’assassino, 2007) e di Othello (1952) diretto da Orson Welles, la prima domanda spontanea è sapere se David Cronenberg ha in qualche modo studiato, ammirato e citato la sequenza di Welles, visto che si tratta, in tutti e due i casi, di una sequenza (in entrambi i casi una sequenza che è una sorta di assolo di regia) in cui si ambienta una scena di un omicidio in una sauna. Non ho mai visto l’Otello di Welles prima, per cui non è certo stata un’ispirazione. Ammiro però molte delle sue pellicole, trovo affascinanti gli alti e bassi della sua carriera; è stato un personaggio straordinario che ha realizzato alcuni film semplicemente fantastici. Ero certo di non essere stato il primo ad aver immaginato una lotta con coltello in un bagno turco, ero infatti certo che fosse già avvenuto in precedenza, magari in qualche film giapponese. Quando lavoro non ho riferimenti o referenti cinematografici benché io sia influenzato da tanti film. Non ho mai seguito alcun corso di cinema, sono un autodidatta e la mia scuola è stata vedere pellicole; così come si impara a scrivere un romanzo leggendone, allo stesso modo si impara a girare film vedendoli. In questo senso mi è stato quindi insegnato a fare film da molte persone. Penso però che certe cose emergano organicamente dai personaggi, dall’ambiente – nel caso di Eastern Promises dalla mafia russa a Londra – e la scena del bagno turco è dovuta al fatto che volevo mostrare i tatuaggi del protagonista, quei segni che raccontano l’intera storia di quello che queste persone sono, la storia di quel che è l’affiliazione in termini di criminalità. Il solo posto in cui i tatuaggi possano veramente vedersi in modo chiaro e inequivocabile è quindi nel bagno turco. I personaggi si incontrano lì per una ragione precisa.
Eastern Promises, ed è la sua caratteristica, è veramente low-tech, quelli impiegati sono coltelli con lame retrattili, strumenti davvero semplici, e non compaiono pistole. Per qualche strana ragione, credo si tratti della visione della tecnologia più primitiva di tutti i miei film. Anche gli strumenti per realizzare i tatuaggi sono del tipo impiegato nelle prigioni russe, si tratta di attrezzi ottenuti trasformando campanelli elettrici che vibrano, questo perché i criminali laggiù non hanno alcun accesso ad attrezzature moderne neppure per fare dei tatuaggi. Nei miei film mostro sempre un certo interesse per la tecnologia e per quello che essa è, questo perché il regista deve necessariamente impiegare la tecnologia dal momento che non è uno scultore né un pittore. C’è un suo impiego sempre maggiore nella realizzazione di film e si tratta sempre di una tecnologia estremamente avanzata; non importa di quale tipo si tratti ma se è avanzata presto o tardi finisce sempre con l’essere impiegata nel cinema. Si sente spesso la gente parlare della disumanizzazione dovuta alla tecnologia e lo trovo davvero sconcertante perché essa è interamente umana nel senso che non esiste alcun altro tipo di tecnologia se non quella umana. Si tratta quindi di un prodotto della mente e dello spirito creativo degli uomini e, sostanzialmente, nasce come estensione del corpo. Basta pensare a un telefono cellulare che non è altro che un’estensione dell’orecchio e della voce, del sentire e del parlare, e poi, se si possiede un iPhone, ci sono altre cose che si possono fare, come il navigatore satellitare che è estremamente utile. Ritengo quindi che la tecnologia sia un nostro riflesso e che ci riveli quel che siamo, quali siano le nostre ispirazioni e fantasie. Quel che intendo è che anche il luogo in cui siamo in questo momento è sostanzialmente tecnologia. Questo stesso edificio non è un prato in cui piove, tutto questo spazio è guidato dalla tecnologia ma riflette quel che vogliamo, la comodità, la protezione dal mondo esterno, la creazione di un nostro mondo, l’amplificazione della mia voce che di certo non sarebbe possibile sentire senza questo microfono. Come stavo dicendo, quindi, la tecnologia è estremamente umana e in tal senso non disumanizzante ma rivelatoria della nostra condizione e questa è la ragione per cui in molti dei miei film riservo molto spazio ad essa o mi piace inventarne di nuove, come in eXistenZ, dove tratto il mondo dei videogame che ben presto è divenuto assolutamente reale. Credo sia effettivamente molto difficile tenere il passo della tecnologia.
Nei suoi lavori è evidente una ricerca, un percorso d’autore, una personalità molto forte. Mi chiedo come sia stato possibile e, soprattutto, come reagì quando l’industria hollywoodiana le propose di girare prima Star Wars (Guerre Stellari) e poi Top Gun (1986).Non so quanto seria fosse l’offerta per Top Gun ma ricevetti la sceneggiatura dal mio agente. Si trattava di un film estremamente patriottico, militaristico ma, essendo io un canadese, per me è diverso e ho una sensibilità differente. Qualche volta ricevo sceneggiature che non riesco a comprendere perché non sono abbastanza americano. E lo dico sul serio. Nel caso di Star Wars, mi pare ricevetti una telefonata mentre facevo colazione in cucina da quello che credo fosse uno dei produttori del terzo Star Wars – The Return of the Jedi (Guerre Stellari – Il ritorno dello Jedi, 1983). Mi fu chiesto se fossi interessato a incontrare George Lucas e a girare quel film; io risposi: «Di solito non faccio film di altri» e la persona replicò: «Va bene. La saluto». Suppongo di non aver dimostrato abbastanza entusiasmo per il mondo di Star Wars e nei loro confronti. Questo è quanto sono stato vicino a dirigere quel film ma al tempo stesso risposi seriamente in quel modo, perché giravo solo pellicole di cui avessi scritto io stesso la sceneggiatura e non comprendevo cosa mai potessi apportare a qualcosa così controllato da George Lucas.
Come è nato The Dead Zone (La zona morta, 1983)?
Mi era stato inviato il copione che inizialmente rifiutai. Poi incontrai la produttrice Debra Hill a qualche festa a Los Angeles. Io non sono uno che va a molte feste. Lì lei mi propose nuovamente questo soggetto e riuscì a essere molto persuasiva, dicendomi che Dino De Laurentiis, il produttore del film, era molto interessato ad avermi nel progetto. Non ricordo perché ma, per qualche strana ragione, tutto quello che stavo facendo allora non riusciva mai a concretizzarsi, accettai così di incontrare Dino. Esistevano ben 5 stesure della sceneggiatura, una di loro addirittura curata da Stephen King, ed era sicuramente la peggiore di tutte, e lo dico sul serio. I suoi fan mi avrebbero ucciso se avessi usato quella sceneggiatura perché, per qualche motivo, aveva trasformato il suo racconto in un film su un serial killer. Comunque sia, scelsi l’autore della versione che ritenevo a me più vicina e lavorai con lui e quella fu la prima volta che giravo un film basato su un racconto e su una sceneggiatura di qualcun altro. Ci lavorammo su parecchio e fu un’esperienza davvero interessante; sino ad allora, infatti, rispettavo solo quei cineasti che realizzavano film scritti da loro ma in quell’occasione compresi che non tutti i bravi registi sanno scrivere. Puoi essere un bravo regista e non necessariamente un bravo scrittore e viceversa. Fu davvero una bella esperienza realizzare The Dead Zone, mi divertii molto e fui orgoglioso del film e pensai che era una cosa interessante, che si può lavorare su materiale di altri e quando lo si fa è come una fusione di vedute con un altro. È quasi come il sesso. Quasi, però. Vabbé, no, non è come il sesso ma è una combinazione dei rispettivi materiali genetici, senza implicazioni sessuali. Fu una cosa veramente buona per me perché dopo mi si aprirono le strade per fare qualcosa come Crash, la mia versione almeno, basata sul libro di James Graham Ballard, non quella di Paul Haggis, poi Naked Lunch (Il pasto nudo, 1991) basato sul lavoro di William Burroughs, e M. Butterfly, tratto dalla piéce di David Henry Hwang. È stato un bene per me perché mi ha tirato fuori da quella sorta di stato mentale estremamente rigoroso per cui si deve fare solo un certo tipo di cose e non altro; ho così compreso che ovviamente un film è sempre una collaborazione e una pellicola può trarre origine da qualsiasi cosa: un sogno, un articolo di giornale, un racconto, un testo teatrale o dallo spazio. Per questo non ha alcun senso limitarsi a un solo modo di fare cinema.
(domande dal pubblico)
Vorrei fare una domanda su un ruolo che David Cronenberg ha ricoperto nella storia del cinema, ovvero quello di interprete. Mi sento particolarmente legato a un film come Nightbreed (Cabal, 1990) in cui lei interpreta il ruolo dell’antagonista. Vorrei sapere com’è stata l’esperienza attoriale in quel film in cui incarnava il male, nei panni di un assassino puro implacabile, così come in To Die For (Da morire, 1995) di Gus van Sant, nonostante nella vita reale lei dica di sgomentarsi di fronte alla violenza.Sono molti i registi che segretamente vorrebbero recitare. Il ruolo che ho interpretato in Nightbreed è stato il tipo di recitazione più serio che abbia fatto. Ho trascorso ben 3 mesi a Londra esclusivamente occupato come attore, benché fossi anche impegnato a scrivere la sceneggiatura di Naked Lunch, si è trattato però del tipo più estremo di recitazione con cui mi sono misurato. Tutti gli altri ruoli che ho interpretato mi hanno impegnato per due o tre giorni, in genere a Toronto, proprio come nel film di Gus van Sant. Si è trattato comunque di un’esperienza molto interessante; è stata infatti la prima volta in cui ho esperito quello che chiamano il «tempo dell’attore», durante il quale si vive in un’altra città, di solito lontano dalla propria famiglia, si trascorrono le giornate accanto al telefono, aspettando il momento in cui ti dicano: «Vieni sul set!». A volte però non sono ancora pronti a girare ma tu non puoi allontanarti. Sono stati momenti in cui ero molto cupo, depresso, perché la famiglia è stata con me solo per un po’, poi è dovuta andar via. Io vivevo solo, in una grande casa a St. John’s Wood e proprio non sapevo come fare, come fare a vivere da attore, sulla location, recitando. C’era un altro interprete del film, Charlie Haid, abbastanza noto per aver lavorato nella serie Hill Street Blues (Hill Street giorno e notte), che mi disse: «David, tu sbagli. Non puoi restartene a casa, devi uscire, devi fare qualcosa, esplorare la città. Dai, ce ne andremo a Stratford-on-Avon e noleggeremo una barca per scendere lungo il fiume Avon, fino a Londra». E così abbiamo fatto. Noi due soli in barca, lungo una sorprendente serie di affluenti. Ed è lì che ho capito da dove nascono tutti quei racconti per bambini alla Beatrix Potter, quelle storie ambientate in una campagna che credevo fossero solo un’invenzione e invece esiste davvero. Per me è stato interessante sotto molti aspetti comprendere non solo la psicologia di un attore sul set ma la loro psicologia di persone che vivono come zingari. È un tipo di vita tanto strano quanto emozionante che necessita di un carattere molto particolare per essere vissuta e debbo ammettere che non sono abbastanza serio come attore per ripetere quel tipo di esperienza e trascorrere ancora tre o quattro mesi a recitare da qualche parte dove si gira un film. Suppongo comunque che se si trattasse di un progetto o di un regista abbastanza interessanti prenderei in considerazione l’offerta ma oggi le proposte che ricevo sono solo per interpretare uno scienziato pazzo oppure uno psichiatra omicida, un medico o cose simili a cui non sono molto interessato. Proprio come ogni attore, ti aspetti che qualcuno scopra il tuo vero «io», che qualcuno riveli il genio che è in te, perché un attore non riesce a farlo da solo. Si dipende troppo dalla sceneggiatura o dal progetto o dal regista ed è questo il motivo per cui la maggior parte degli interpreti prestano particolare attenzione ai cineasti con cui lavorano, sebbene, lo ammetto, per quanto riguarda la mia esperienza, il personaggio viene prima d’ogni altra cosa. Se a un attore interessa interpretare un certo ruolo è disposto a lavorare con un regista che non ammira perché desidera fortemente la parte. Ho capito molto della psicologia degli attori e anche il fatto che, come interprete, tu hai un corpo e quello è lo strumento con cui devi lavorare: non hai alcuna tecnologia a disposizione, hai solo te stesso, il tuo corpo, il tuo tutto. Il corpo è lo strumento che suoni e il cast è l’orchestra.
Il sesso è molto importante nei suoi film. Spesso figura una componente omo-erotica. Vorrei lei ne parlasse più approfonditamente.
Quando delineo un personaggio, in una sceneggiatura, cerco di restare quanto più aperto ad ogni genere di esperienze. Non è come quando si scrive un’autobiografia. Quando le persone vanno al cinema, una delle attrattive principali è riuscire a vivere le vite degli altri, vite che non ci appartengono e che, forse, non vorremmo vivere ma che c’incuriosiscono comunque. È evidente che se il corpo umano è una priorità nella tua vita creativa, allora la sessualità occupa un ruolo centrale. Vorrei tanto essere stato il primo a capire lo stretto rapporto tra il sesso e la violenza ma sono diverse migliaia di anni che gli artisti lo hanno compreso. Nei primi due film che ho realizzato, Stereo (1969) e Crimes of the Future (1970), l’attore protagonista era un mio amico omosessuale, perciò si è trattato di una vera e propria collaborazione, molto spontanea. Non esisteva infatti alcuna sceneggiatura per quei film. I quali hanno quindi un orientamento piuttosto omosessuale per via di quell’attore, qualcosa che allora m’interessava molto e che non ho tentato di reprimere. Il protagonista somigliava un po’ all’attore svedese Max von Sydow, noto per aver interpretato i film di Ingmar Bergman. Per certi versi, quello fu l’inizio del processo collaborativo. Mi piacciono i personaggi delineati nella sceneggiatura ma gli attori sono molto più interessanti. Mi incuriosisce quello che disse Fellini quando affermò che si pensa a un personaggio biondo, alto 1 metro e 90 e poi ti ritrovi con un attore bruno e alto 1 metro e 50 che però è reale mentre il tuo personaggio è solo una fantasia. Si inizia allora a pensare che forse quel personaggio dovrebbe essere davvero bruno e alto solo 1 metro e 50. Anche per me è così: subisco molto l’influenza della presenza degli attori, anche se sono io a selezionarli sono loro a influenzarmi successivamente. Nel momento in cui decidi che nel tuo film esplori la sessualità, sarebbe strano escludere uno degli aspetti principali della sessualità che è l’omosessualità. L’attore di cui dicevo ne parlò sin dal mio primo film, la definimmo «onnisessualità» che è la perversione omnimorfa freudiana, l’idea che in un bimbo la sessualità sia in ogni cosa, ogni aspetto della vita sia sessuale e che è solo più tardi che si diventa specifici sulla propria natura maschile o femminile. Tutto questo mi affascina, è molto reale, molto umano, molto valido. Credo che in una pellicola come Crash compaiano tutti i tipi di sessualità. Quando ero a Parigi per girare Naked Lunch, fui intervistato da un giornalista affetto da aids, un omosessuale militante che era molto arrabbiato perché, per lui, William Burroughs era un’icona gay. Ma Burroughs stesso si definiva «checca» e non gay. Era sposato, faceva sesso con donne e trascorse un lungo periodo della propria vita negando la sua omosessualità. Pensai quindi che quel che stavo facendo con Naked Lunch era vero rispetto alla vita di Burroughs, rispetto alla sua evoluzione e al suo sviluppo e che, con questo film, non stavo tentando di affermare alcuna tesi politica sul piano sessuale. Conoscevo bene Burroughs e avevo trascorso molto tempo in sua compagnia. Credo sia molto pericoloso per un artista essere politico nel senso più stretto del termine.
Una domanda sul suo Videodrome (1983). Quando lo vidi rimasi sconvolto dal finale surreale e da allora mi sono chiesto se il protagonista del film divenisse suicida soltanto nei suoi incubi, considerando che le visioni all’inizio della pellicola sono proiettate singolarmente da lui, o meglio: Videodrome le proietta singolarmente nella sua mente. Guardando al programma di Videodrome ho pensato metaforicamente a questo programma violento un po’ come al precursore della violenza in tv, oggi ben più evidente. Vorrei quindi sapere se, quando ha pensato alla storia del film, nutriva qualche speranza per il protagonista di fronte alla smisurata tecnologia del film che provoca angoscia. Allo stesso modo vorrei sapere se vi è qualche speranza per noi, oggi, di fronte a tutta la violenza trasmessa dalla tv.
Sono molte le cose che ho sperimentato in Videodrome. Sono in molti a ritenere che quel film fu profetico perché precorreva la tv interattiva, internet, tutto questo genere di cose. Quello che mettevo in discussione era il modo in cui costruiamo la realtà nella mente. Quello che intendo è che si può camminare in una strada calma e tranquilla mentre nella propria testa permangono immagini di violenza in altre città, in altri luoghi e si prova angoscia, paura. Tutto questo non ha niente a che vedere con la realtà fisica che si vive in quel preciso momento. Ci sono persone che sono particolarmente impressionate da quel che leggono o vedono, non soltanto in tv o in internet. Eppure, se si presta attenzione alla reale esperienza delle loro vite fisiche questa ci appare assolutamente pacifica, calma e priva di pericoli. Ho indagato fino a che punto l’influenza di un mezzo d’informazione come la televisione potesse spingersi fino a modificare la realtà perché, come dicevo prima, noi creiamo la nostra realtà. Se infatti si pensa a un’altra cultura in cui si parla un’altra lingua e si è fortemente religiosi e vi sono molti rituali particolari, quella realtà è ben diversa dalla mia e ne hai un’altra. È quindi molto difficile parlare di realtà oggettiva con gli esseri umani. Ci guardiamo attorno, ad esempio, e pensiamo: «Questa è la realtà», ma ovviamente, se io fossi un cane, mi guarderei attorno e vedrei cose completamente diverse, i colori, le forme, l’olfatto importerebbe ben più della vista, si tratterebbe di una percezione completamente diversa della stessa realtà fisica. Per cui, ogni animale risponderebbe diversamente a quel che vediamo in questa stanza. Allora tentai di comprendere tutto questo e trasmetterlo ai miei personaggi per affermare: ecco un ruolo che ha permesso ai media di assumere il controllo di ogni altro tipo di realtà e reagisce a tutto questo come fosse la sola realtà. I miei film non sono affatto contro la speranza perché se fossi disperato non farei cinema. Se sei disperato non puoi creare. Secondo me, fare un film è un atto di speranza.
da qui grazie
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