Taxidermia
di Gyorgy Pàlfi (2006 UNG 90')
con Csaba Czene, Gergely Tròcsànyi, Piroska Molnàr, Adél Stanczel, Marc Bischoff, Gabor Maté.
Ancora in qualche sperduto anfratto di mondo si fa grande cinema non omologato, il problema è che in Italia non arriva quasi nulla di ciò o se arriva gran parte della critica e del pubblico, ambedue lobotomizzati, non sono più in grado di apprezzarlo (il cinema di Aronofsky o Inarritu ne sono un esempio). In questo caso è l'ungherese Gyorgy Palfi che ci regala questa sbalorditiva gemma surreale e grottesca, una bizzarra e urticante cavalcata attraverso tre generazioni di una famiglia dell'est europeo. La pervicace volontà del regista è rivolta all'esclusiva esplorazione della fisicità dei suoi personaggi, in una virulenta immersione nei loro corpi pulsionali ed istintivi, tempestati durante la visione da ogni genere di fluido biologico.
Il film è suddiviso in tre episodi, tratti liberamente da racconti di Lajos Parti Nagy incentrati su sesso, cibo e morte: nel primo episodio vediamo un eccentrico triangolo amoroso, ambientato nelle steppe magiare in tempo di guerra, composto da un soldato erotomane, un crudele comandante e la lasciva moglie obesa. Da un rapporto proibito tra il soldato e la donna nasce un figlio illegittimo (dotato di una codina di maiale posteriore di Borowczyana memoria), che diverrà il corpulento protagonista del secondo episodio sempre incentrato su un assurdo triangolo amoroso tra lui, divenuto nel frattempo campione mondiale di abbuffata sportiva sotto il regime comunista, una donna obesa ed un altro grassissimo campione. Da un altro rapporto proibito nasce un altro figlio illegittimo, stavolta scheletrico e dall'aspetto malsano, che diverrà protagonista del terzo episodio come valente artigiano abilissimo nell'arte della imbalsamazione (da qui il titolo Tassidermia) e contemporaneamente dedito ad accudire il vecchio padre, ex campione, ormai dimenticato da tutti e ridotto a mostruoso sosia di "Jabba the Hut" e i suoi tre gatti giganti, futuri certi campioni dell'abbuffata sportiva tra animali, prossimo sport olimpico nel mondo surreale del film. Il figlio represso autolesionista ambisce a creare l'opera d'arte del futuro, alla ricerca dell'immortalità, e arriva così a costruire un complesso marchingegno meccanico per autoimbalsamarsi e mutilarsi al fine di diventare l'enigmatico simbolo di un'umanità primitiva ad una avveniristica lezione universitaria di fronte ad una razza umana del futuro, ben più inquietante dei protagonisti del film, in una mirabolante sequenza finale di allucinante rigore formale e contenutistico.
Il film è un assalto frontale ai sensi dello spettatore, una visionaria rappresentazione dell'apocalisse del genere umano, comunque mai fine a sé stessa, che il regista provocatoriamente imbastisce partendo dalle scorie e dai tabù della società contemporanea, drammaticamente priva d'amore e affetto, perseguendo con millimetrica precisione l'annichilimento di ogni fonte di consolazione, sollievo e speranza per l'attonito spettatore. Ciò che colpisce è anche l'estrema eleganza della messinscena e la splendida padronanza nell'uso della macchina da presa, capace di regalarci splendidi piani sequenza e abbaglianti inquadrature. Anche la colonna sonora è magnifica ed estremamente funzionale alle radicali immagini. Cinema spietato, indigesto e crudele, assolutamente non riconciliato, ma al tempo stesso poetico e profondamente toccante, un vero volo iperbolico nel girone infernale del mondo, degno erede delle sempiterne opere di Arrabal, Jodorowsky e Makavejev.
"Spero di essere riuscito a fare un film istintivo sulla perfezione e l'imperfezione dell'uomo" (Gyorgy Palfi)
23/12/07
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