Demoni e meraviglie
venti e maree
s'è ritirato già il mare in lontananza
e tu
come alga dolcemente dal vento accarezzata
nelle sabbie del letto ti agiti sognando
Demoni e meraviglie
venti e maree
il mare s'è ritirato già in lontananza
ma nei tuoi occhi socchiusi
due piccole onde son rimaste
Demoni e meraviglie
venti e maree
due piccole onde per farmi annegare.
(Jacques Prévert)
foto: Dita Von Teese
29/06/08
28/06/08
Downtown 81
Downtown 81
di Edo Bertoglio (1981 USA 75')
con Jean Michel Basquiat, Deborah Harry, David McDermott, Kid Creole & the Coconuts, Eszter Balint, Victor Bockris, Clem Burke, Marshall Chess, Diego Cortez, August Darnell, Jimmy Destri, Lori Eastside, Tay Falco, Vincent Gallo, Bradley Field, John Lurie, Walter Steding, Tav Falco, Fab Five Freddy, Compton Maddux.
Docufiction girato dal fotografo Edo Bertoglio tra il 1980 e il 1981, con protagonista un ancora sconosciuto Jean-Michel Basquiat, rivoluzionario artista, successivamente celebre per la sua street art, spirituale e trasgressiva, che ha contribuito a materializzare definitivamente in immagini la caduta dei sistemi ideologici e filosofici, tipica del mondo contemporaneo.
Il film, ambientato in un unico giorno vissuto tutto d'un fiato, è incentrato sul girovagare attraverso New York di un ragazzo di colore con la sua inseparabile tromba, appena dimesso dall'ospedale (nella realtà Basquiat fu investito in auto e ricoverato malmesso a sette anni) e ora alla ricerca del denaro necessario per recuperare l'appartamento da cui è stato appena sfrattato (per morosità), avendo difficoltà nel vendere uno dei suoi quadri. Questo ragazzo, che recita proprie poesie e disquisisce sulla ”letteratura al neon”, si fa chiamare Samo ("Same Old Shit"), considera il mondo un'immensa lavagna e si diverte a graffittare i muri dei palazzi con frasi enigmatiche, ironiche, ma illuminanti, veri e propri esempi di scrittura automatica poetica. Il suo girovagare per le strade di Manhattan (la zona è quella del Lower East Side) ci permette di immergerci nell'underground newyorchese dell'epoca e di incontrare parecchi personaggi: tutti assorbiti nel tentativo di esprimere un proprio originale messaggio attraverso svariati mezzi espressivi, principalmente la pittura e la musica. Da questo punto di vista, Downtown 81 riflette l'immagine fedele del suono di New York, catturato nei primi anni Ottanta. Compaiono nell'ordine: i DNA, band capitanata dall'eclettico Arto Lindsay, filmati mentre provano in studio una versione lancinante di Blonde Redhead. Deborah Harry (Blondie) si diverte nel ruolo della fatina buona, che regala a Samo una valigia piena di denaro. James White (and the Blacks) è alle prese con una versione indemoniata di Sex Maniac, suonata live al leggendario Peppermint Lounge. I Tuxedomoon di Steven Brown sono concentrati in sala di registrazione, mentre The Felons, scalcinato gruppo punk, capitanati da Chris Stein (Blondie) sono immortalati mentre suonano in una squallida cantina. E poi, ecco apparire Kid Creole, ancora immerso nei bassifondi, ben lontano dal successo planetario che lo investirà da lì a poco. In colonna sonora poi abbiamo John Lurie, i Suicide, Lydia Lunch, Vincent Gallo, Melle Mel, Kenny Burrell, e la band di Basquiat i "Grey". Un'amalgama di punk viscerale, rumorismo, jazz, funk sincopato e musica sperimentale ci assale, facendoci rivivere un'irripetibile stagione di straordinaria ricerca e fermento. Il film viene così ad essere una eccezionale testimonianza dell'epoca, catturando splendidamente i suoi colori, i suoi vestiti e i suoi suoni.
Altro grande merito del film è quello di essere una testimonianza dello straordinario movimento graffitista newyorchese, dove il graffito sul muro viene a rappresentare un collegamento tra l'archetipo primitivo e l’immagine tecnologica, tra linguaggio pubblicitario e fumetto, tra pittura e cinema.
A partire dal 1978 Jean-Michel Basquiat con alcuni compagni d'avventura comincia a riempire i muri di Manhattan con scritte provocatorie, tutte firmate con la sigla SAMO. Nel 1979 il gruppo, per evitare problemi con le autorità, si scioglie annunciando la decisione con un graffito "SAMO IS DEAD". Basquiat, come si vede nel film, invece continua solitario e imperterrito a scrivere aforismi beffardi sul mondo che lo circonda. Un'arte quella dei murales che ha il pregio di raggiungere, in maniera diretta, le persone con un notevole potenziale di influenzare e trasformare le idee della collettività (basti pensare a quanto siamo bombardati dalla pubblicità cartellonistica). E infatti Keith Haring nel 1979 notò i graffiti e divenne istantaneamente sodale di Basquiat. Questa forma artistica diretta e rivoluzionaria permise, in pochi anni, a Basquiat di essere, partendo dalla povertà assoluta in cui lo vediamo arrabattarsi nel film, il primo e unico artista di colore a riuscire ad entrare, con grande successo, nel mondo artistico internazionale.
Downtown 81: Rarovideo cosa aspetti a distribuirlo?
“Vedevo le scritte sui muri, erano mie. Ho lasciato la mia impronta sul mondo e il mondo ha lasciato la sua su di me. Sono uno scrittore ma a volte mi sembra che qualcuno abbia scritto me...forse mi sono scritto da solo. La vita è così: scrivere, scrivere, riscrivere” (Jean Michel Basquiat nel film)
di Edo Bertoglio (1981 USA 75')
con Jean Michel Basquiat, Deborah Harry, David McDermott, Kid Creole & the Coconuts, Eszter Balint, Victor Bockris, Clem Burke, Marshall Chess, Diego Cortez, August Darnell, Jimmy Destri, Lori Eastside, Tay Falco, Vincent Gallo, Bradley Field, John Lurie, Walter Steding, Tav Falco, Fab Five Freddy, Compton Maddux.
Docufiction girato dal fotografo Edo Bertoglio tra il 1980 e il 1981, con protagonista un ancora sconosciuto Jean-Michel Basquiat, rivoluzionario artista, successivamente celebre per la sua street art, spirituale e trasgressiva, che ha contribuito a materializzare definitivamente in immagini la caduta dei sistemi ideologici e filosofici, tipica del mondo contemporaneo.
Il film, ambientato in un unico giorno vissuto tutto d'un fiato, è incentrato sul girovagare attraverso New York di un ragazzo di colore con la sua inseparabile tromba, appena dimesso dall'ospedale (nella realtà Basquiat fu investito in auto e ricoverato malmesso a sette anni) e ora alla ricerca del denaro necessario per recuperare l'appartamento da cui è stato appena sfrattato (per morosità), avendo difficoltà nel vendere uno dei suoi quadri. Questo ragazzo, che recita proprie poesie e disquisisce sulla ”letteratura al neon”, si fa chiamare Samo ("Same Old Shit"), considera il mondo un'immensa lavagna e si diverte a graffittare i muri dei palazzi con frasi enigmatiche, ironiche, ma illuminanti, veri e propri esempi di scrittura automatica poetica. Il suo girovagare per le strade di Manhattan (la zona è quella del Lower East Side) ci permette di immergerci nell'underground newyorchese dell'epoca e di incontrare parecchi personaggi: tutti assorbiti nel tentativo di esprimere un proprio originale messaggio attraverso svariati mezzi espressivi, principalmente la pittura e la musica. Da questo punto di vista, Downtown 81 riflette l'immagine fedele del suono di New York, catturato nei primi anni Ottanta. Compaiono nell'ordine: i DNA, band capitanata dall'eclettico Arto Lindsay, filmati mentre provano in studio una versione lancinante di Blonde Redhead. Deborah Harry (Blondie) si diverte nel ruolo della fatina buona, che regala a Samo una valigia piena di denaro. James White (and the Blacks) è alle prese con una versione indemoniata di Sex Maniac, suonata live al leggendario Peppermint Lounge. I Tuxedomoon di Steven Brown sono concentrati in sala di registrazione, mentre The Felons, scalcinato gruppo punk, capitanati da Chris Stein (Blondie) sono immortalati mentre suonano in una squallida cantina. E poi, ecco apparire Kid Creole, ancora immerso nei bassifondi, ben lontano dal successo planetario che lo investirà da lì a poco. In colonna sonora poi abbiamo John Lurie, i Suicide, Lydia Lunch, Vincent Gallo, Melle Mel, Kenny Burrell, e la band di Basquiat i "Grey". Un'amalgama di punk viscerale, rumorismo, jazz, funk sincopato e musica sperimentale ci assale, facendoci rivivere un'irripetibile stagione di straordinaria ricerca e fermento. Il film viene così ad essere una eccezionale testimonianza dell'epoca, catturando splendidamente i suoi colori, i suoi vestiti e i suoi suoni.
Altro grande merito del film è quello di essere una testimonianza dello straordinario movimento graffitista newyorchese, dove il graffito sul muro viene a rappresentare un collegamento tra l'archetipo primitivo e l’immagine tecnologica, tra linguaggio pubblicitario e fumetto, tra pittura e cinema.
A partire dal 1978 Jean-Michel Basquiat con alcuni compagni d'avventura comincia a riempire i muri di Manhattan con scritte provocatorie, tutte firmate con la sigla SAMO. Nel 1979 il gruppo, per evitare problemi con le autorità, si scioglie annunciando la decisione con un graffito "SAMO IS DEAD". Basquiat, come si vede nel film, invece continua solitario e imperterrito a scrivere aforismi beffardi sul mondo che lo circonda. Un'arte quella dei murales che ha il pregio di raggiungere, in maniera diretta, le persone con un notevole potenziale di influenzare e trasformare le idee della collettività (basti pensare a quanto siamo bombardati dalla pubblicità cartellonistica). E infatti Keith Haring nel 1979 notò i graffiti e divenne istantaneamente sodale di Basquiat. Questa forma artistica diretta e rivoluzionaria permise, in pochi anni, a Basquiat di essere, partendo dalla povertà assoluta in cui lo vediamo arrabattarsi nel film, il primo e unico artista di colore a riuscire ad entrare, con grande successo, nel mondo artistico internazionale.
Downtown 81: Rarovideo cosa aspetti a distribuirlo?
“Vedevo le scritte sui muri, erano mie. Ho lasciato la mia impronta sul mondo e il mondo ha lasciato la sua su di me. Sono uno scrittore ma a volte mi sembra che qualcuno abbia scritto me...forse mi sono scritto da solo. La vita è così: scrivere, scrivere, riscrivere” (Jean Michel Basquiat nel film)
26/06/08
La verità
25/06/08
La notte brava del soldato Jonathan
La notte brava del soldato Jonathan - The Beguiled
di Don Siegel (1971 USA 105’)
Con Clint Eastwood, Geraldine Page, Elizabeth Hartman,
Jo Ann Harris, Darleen Carr, Mae Mercer, Pamelyn Ferdin.
Durante la guerra civile americana, un caporale nordista ferito e abbandonato dai suoi in territorio nemico, di nome Jonathan Mc Burney, è trovato da una ragazzina e riesce così a rifugiarsi temporaneamente in un collegio femminile sudista, circondato da donne palesemente insoddisfatte. All'inizio le ragazze lo avversano, poi una ad una subiscono inevitabilmente il suo fascino...inizialmente l'uomo si pavoneggia abilmente tra le sue prede, ma un passo falso scatenerà la furibonda gelosia delle donne e porterà all'unione del gruppo, condannandolo ad un lento e sconvolgente strazio. The Beguiled è già da molti anni quasi invisibile, capolavoro sommerso, scomparso inspiegabilmente dalla circolazione. Forse perché è un film anomalo e spiazzante, molto lontano dai clichés attraverso i quali si è soliti pensare sia al suo regista (film di genere), che al protagonista (solitamente eroe virile e senza paura).
Siegel si dimostra in grado di girare un film estremamente raffinato dal punto di vista visivo (basti citare la sequenza dei titoli di testa e lo stupendo viraggio dal bianco e nero al colore) e assai complesso per quanto riguarda le tematiche, riuscendo anche a tratteggiare accuratamente e sottilmente le diverse psicologie dei vari personaggi femminili, confermandosi così maestro indiscusso della Settima Arte. Clint Eastwood, interpretandolo e producendolo, si dimostra coraggioso e genialmente autoironico, infatti apparentemente “gallo nel pollaio”, risulta in realtà completamente in balia delle donne che gli danno rifugio ed assistenza, arrivando ad un finale che è un succulento sberleffo ai lieto fine hollywoodiani.
Chiaramente il film fu troppo bello e geniale per il pubblico e ne conseguì un pesantissimo fiasco al botteghino, fortunosamente recuperato pochi mesi dopo, grazie al fatto che Don e Clint crearono Dirty Harry (Callaghan!), enorme successo planetario, che permise loro di coprire l'ingente danno. The Beguiled ("l’irretito", "l’ingannato") è un film estremamente simbolico (per esempio l'amputazione della gamba come chiaro richiamo della castrazione), dotato di uno stile ricercato, fatto di ralenti visionari, flashback ingannevoli, dissolvenze incrociate, continui rovesciamenti del punto di vista all’interno di una stessa scena, sovrimpressioni fra sequenze con alterazioni delle dinamiche intrinseche. E’ un dramma raccolto in uno spazio limitato e chiuso, con protagonisti che si studiano attentamente fino a compenetrarsi e dilaniarsi progressivamente, afflitti da una sessualità repressa e asfissiata da una morale coercitiva, che porta alla detonazione di comportamenti esplosivi, accuratamente celati dietro a rigide condotte perbeniste. Da notare anche la costruzione circolare della pellicola, con un incipit e un finale (in bianco e nero) entrambi con il protagonista disteso supino in situazione preoccupantemente sfavorevole.
Il beffardo Siegel osava dichiarare all'uscita del film ed in tempi di accanito femminismo militante: “In un mondo generalmente bugiardo e che dissimula il suo vero volto sotto una maschera di rispettabilità, le donne sono esseri essenzialmente falsi, che si proteggono sempre dietro una facciata di innocenza o di verginità.”
di Don Siegel (1971 USA 105’)
Con Clint Eastwood, Geraldine Page, Elizabeth Hartman,
Jo Ann Harris, Darleen Carr, Mae Mercer, Pamelyn Ferdin.
Durante la guerra civile americana, un caporale nordista ferito e abbandonato dai suoi in territorio nemico, di nome Jonathan Mc Burney, è trovato da una ragazzina e riesce così a rifugiarsi temporaneamente in un collegio femminile sudista, circondato da donne palesemente insoddisfatte. All'inizio le ragazze lo avversano, poi una ad una subiscono inevitabilmente il suo fascino...inizialmente l'uomo si pavoneggia abilmente tra le sue prede, ma un passo falso scatenerà la furibonda gelosia delle donne e porterà all'unione del gruppo, condannandolo ad un lento e sconvolgente strazio. The Beguiled è già da molti anni quasi invisibile, capolavoro sommerso, scomparso inspiegabilmente dalla circolazione. Forse perché è un film anomalo e spiazzante, molto lontano dai clichés attraverso i quali si è soliti pensare sia al suo regista (film di genere), che al protagonista (solitamente eroe virile e senza paura).
Siegel si dimostra in grado di girare un film estremamente raffinato dal punto di vista visivo (basti citare la sequenza dei titoli di testa e lo stupendo viraggio dal bianco e nero al colore) e assai complesso per quanto riguarda le tematiche, riuscendo anche a tratteggiare accuratamente e sottilmente le diverse psicologie dei vari personaggi femminili, confermandosi così maestro indiscusso della Settima Arte. Clint Eastwood, interpretandolo e producendolo, si dimostra coraggioso e genialmente autoironico, infatti apparentemente “gallo nel pollaio”, risulta in realtà completamente in balia delle donne che gli danno rifugio ed assistenza, arrivando ad un finale che è un succulento sberleffo ai lieto fine hollywoodiani.
Chiaramente il film fu troppo bello e geniale per il pubblico e ne conseguì un pesantissimo fiasco al botteghino, fortunosamente recuperato pochi mesi dopo, grazie al fatto che Don e Clint crearono Dirty Harry (Callaghan!), enorme successo planetario, che permise loro di coprire l'ingente danno. The Beguiled ("l’irretito", "l’ingannato") è un film estremamente simbolico (per esempio l'amputazione della gamba come chiaro richiamo della castrazione), dotato di uno stile ricercato, fatto di ralenti visionari, flashback ingannevoli, dissolvenze incrociate, continui rovesciamenti del punto di vista all’interno di una stessa scena, sovrimpressioni fra sequenze con alterazioni delle dinamiche intrinseche. E’ un dramma raccolto in uno spazio limitato e chiuso, con protagonisti che si studiano attentamente fino a compenetrarsi e dilaniarsi progressivamente, afflitti da una sessualità repressa e asfissiata da una morale coercitiva, che porta alla detonazione di comportamenti esplosivi, accuratamente celati dietro a rigide condotte perbeniste. Da notare anche la costruzione circolare della pellicola, con un incipit e un finale (in bianco e nero) entrambi con il protagonista disteso supino in situazione preoccupantemente sfavorevole.
Il beffardo Siegel osava dichiarare all'uscita del film ed in tempi di accanito femminismo militante: “In un mondo generalmente bugiardo e che dissimula il suo vero volto sotto una maschera di rispettabilità, le donne sono esseri essenzialmente falsi, che si proteggono sempre dietro una facciata di innocenza o di verginità.”
Stella Danzante
24/06/08
Forbidden Zone
Forbidden Zone
di Richard Elfman (1980 USA 73')
con Hervé Villechaize, Susanne Tyrrell, Gysele Lindley,
Marie-Pascale Elfman, Danny Elfman, Joe Spinell, Matthew Bright
La quintessenza del cinema di serie Z ci viene regalata da questo midnight movie fuori tempo massimo, che appare come un esilarante incrocio tra "Alice nel paese delle meraviglie", i film deliranti di John Waters e "The Rocky Horror Picture Show". Il film nasce dalle idee di Danny e Richard Elfman e dalle performance del loro leggendario gruppo "The Mystic Knights of the Oingo Boingo", ispirandosi ai cartoons degli anni Trenta di Max Fleischer e agli umori anarcoidi e goderecci della controcultura. E' un musical surreale in bianco e nero di comica stranezza, incentrato sulla Sesta Dimensione, luogo immaginario fatto di fondali di cartapesta che sembrano usciti da un film espressionista tedesco e governato da una regina viziosa (una mitica Susan Tyrrell) e da un re nano ninfomane, interpretato da Hervé Villechaize, impresso nella nostra mente indimenticabilmente come "Tattoo" nella serie Fantasilandia. La Sesta Dimensione è abitata da ogni genere di stramberia a partire da un uomo/rospo in smoking, un gorilla in reggiseno, una principessa in fulminante topless, Joe Spinell in libera uscita da "Maniac", i deliranti Kipper Kids (vedere per credere), drag queens, uomini/pollo dalle incerte tendenze e soprattutto da Satana, un travolgente Danny Elfman in smoking bianco con coda e cravatta che canta, in perfetto stile Cab Calloway, una memorabile versione di Minnie the Moocher.
Raccontare la trama è sminuente perché il film va vissuto e goduto soprattutto nei siparietti musicali, assolutamente godibili e spassosi (ovvio se si è in possesso dell'adeguato sense of humour), che vanno dallo swing al jazz alla latino-americana. Certo la recitazione è spesso dilettantesca (eccetto Susan Tyrrell che come Bitch Queen è esemplare), ma va considerato che l'unico attore pagato del cast fu Hervé e viste le intenzioni forse ciò era voluto. Da ricordare l'uomo lampadario/candeliere sospeso al soffitto sopra la tavola imbandita dei due regnanti, in seguito trasformato in scheletro. Scena cult: quella in cui Hervé cammina sulla tavola imbandita per tuffarsi tra le gambe della libidinosa regina.
Con questa pellicola Danny Elfman, ora stimato compositore di Hollywood e marito di Bridget Fonda, getta le basi per la sua futura collaborazione con Tim Burton, che vedendo questo film deciderà di fare il regista, chiamando poi Elfman per le musiche del suo esordio "Pee-Wee's Big Adventure". Il sodalizio tra i due porterà al capolavoro "Nightmare before Christmas", in cui tra l'altro sono evidenti non pochi parallelismi con questo, ingiustamente ignorato, "Forbidden Zone".
di Richard Elfman (1980 USA 73')
con Hervé Villechaize, Susanne Tyrrell, Gysele Lindley,
Marie-Pascale Elfman, Danny Elfman, Joe Spinell, Matthew Bright
La quintessenza del cinema di serie Z ci viene regalata da questo midnight movie fuori tempo massimo, che appare come un esilarante incrocio tra "Alice nel paese delle meraviglie", i film deliranti di John Waters e "The Rocky Horror Picture Show". Il film nasce dalle idee di Danny e Richard Elfman e dalle performance del loro leggendario gruppo "The Mystic Knights of the Oingo Boingo", ispirandosi ai cartoons degli anni Trenta di Max Fleischer e agli umori anarcoidi e goderecci della controcultura. E' un musical surreale in bianco e nero di comica stranezza, incentrato sulla Sesta Dimensione, luogo immaginario fatto di fondali di cartapesta che sembrano usciti da un film espressionista tedesco e governato da una regina viziosa (una mitica Susan Tyrrell) e da un re nano ninfomane, interpretato da Hervé Villechaize, impresso nella nostra mente indimenticabilmente come "Tattoo" nella serie Fantasilandia. La Sesta Dimensione è abitata da ogni genere di stramberia a partire da un uomo/rospo in smoking, un gorilla in reggiseno, una principessa in fulminante topless, Joe Spinell in libera uscita da "Maniac", i deliranti Kipper Kids (vedere per credere), drag queens, uomini/pollo dalle incerte tendenze e soprattutto da Satana, un travolgente Danny Elfman in smoking bianco con coda e cravatta che canta, in perfetto stile Cab Calloway, una memorabile versione di Minnie the Moocher.
Raccontare la trama è sminuente perché il film va vissuto e goduto soprattutto nei siparietti musicali, assolutamente godibili e spassosi (ovvio se si è in possesso dell'adeguato sense of humour), che vanno dallo swing al jazz alla latino-americana. Certo la recitazione è spesso dilettantesca (eccetto Susan Tyrrell che come Bitch Queen è esemplare), ma va considerato che l'unico attore pagato del cast fu Hervé e viste le intenzioni forse ciò era voluto. Da ricordare l'uomo lampadario/candeliere sospeso al soffitto sopra la tavola imbandita dei due regnanti, in seguito trasformato in scheletro. Scena cult: quella in cui Hervé cammina sulla tavola imbandita per tuffarsi tra le gambe della libidinosa regina.
Con questa pellicola Danny Elfman, ora stimato compositore di Hollywood e marito di Bridget Fonda, getta le basi per la sua futura collaborazione con Tim Burton, che vedendo questo film deciderà di fare il regista, chiamando poi Elfman per le musiche del suo esordio "Pee-Wee's Big Adventure". Il sodalizio tra i due porterà al capolavoro "Nightmare before Christmas", in cui tra l'altro sono evidenti non pochi parallelismi con questo, ingiustamente ignorato, "Forbidden Zone".
Rapporto Confidenziale - numerosei
Rapporto Confidenziale - numerosei
Il cinema certo, ma il problema è tutto il resto.
Il sesto numero di "Rapporto confidenziale", la rivista digitale di cultura cinematografica, è online con cinquantotto pagine di critica cinefila.
"In passato, grazie al lavoro svolto sulla stampa nazionale da giornalisti come Rondi, Fava, Di Gianmatteo, Morandini, Kezich, autentici totem che possiamo considerare i custodi di una critica ortodossa e conservatrice, lo spettatore era meno disorientato dalla copiosa offerta in sala. Ora invece, a causa della diffusione di internet e del proliferare di magazine, blog e forum, la pluralità d'opinioni ha reso più impegnativa l'individuazione delle opere di reale qualità.
Per cercare di uscire da questo cul de sac comunicativo, Alessio Galbiati e Roberto Rippa, autori rispettivamente dei siti Kulturadimazza e Cinemino, hanno dato vita ad un interessante esperimento da riproporre anche in ambiti non strettamente cinematografici. In sintesi, i due giovani critici hanno dato vita a Rapporto Confidenziale, un nuovo magazine che si alimenta esclusivamente con articoli estrapolati da alcuni dei blog più interessanti del web e grazie alla distribuzione con licenza Creative Commons e all'adozione del formato pdf (quindi leggibile su ogni piattaforma o facilmente stampabile su carta), l'utente, a costo zero, ha facoltà di scaricare il giornale nei modi e tempi che preferisce. Questa autorevole e mirata "scrematura" alla base potrebbe costituire una buona soluzione per superare il problema dell'"Overload informativo" che da qualche anno affligge la comunità digitale.
Inutile ribadire che l'operazione merita attenzione sia da parte di chi vuole sondare gli umori di queste avanguardie della critica nostrana che di tutti coloro che cercano sistemi per superare l'ormai sterile individualismo in antitesi con i principi che animavano i primi frequentatori della rete." (Tratto da Italica.rai.it)
Potete scaricare gratuitamente la rivista qui.
Il cinema certo, ma il problema è tutto il resto.
Il sesto numero di "Rapporto confidenziale", la rivista digitale di cultura cinematografica, è online con cinquantotto pagine di critica cinefila.
"In passato, grazie al lavoro svolto sulla stampa nazionale da giornalisti come Rondi, Fava, Di Gianmatteo, Morandini, Kezich, autentici totem che possiamo considerare i custodi di una critica ortodossa e conservatrice, lo spettatore era meno disorientato dalla copiosa offerta in sala. Ora invece, a causa della diffusione di internet e del proliferare di magazine, blog e forum, la pluralità d'opinioni ha reso più impegnativa l'individuazione delle opere di reale qualità.
Per cercare di uscire da questo cul de sac comunicativo, Alessio Galbiati e Roberto Rippa, autori rispettivamente dei siti Kulturadimazza e Cinemino, hanno dato vita ad un interessante esperimento da riproporre anche in ambiti non strettamente cinematografici. In sintesi, i due giovani critici hanno dato vita a Rapporto Confidenziale, un nuovo magazine che si alimenta esclusivamente con articoli estrapolati da alcuni dei blog più interessanti del web e grazie alla distribuzione con licenza Creative Commons e all'adozione del formato pdf (quindi leggibile su ogni piattaforma o facilmente stampabile su carta), l'utente, a costo zero, ha facoltà di scaricare il giornale nei modi e tempi che preferisce. Questa autorevole e mirata "scrematura" alla base potrebbe costituire una buona soluzione per superare il problema dell'"Overload informativo" che da qualche anno affligge la comunità digitale.
Inutile ribadire che l'operazione merita attenzione sia da parte di chi vuole sondare gli umori di queste avanguardie della critica nostrana che di tutti coloro che cercano sistemi per superare l'ormai sterile individualismo in antitesi con i principi che animavano i primi frequentatori della rete." (Tratto da Italica.rai.it)
Potete scaricare gratuitamente la rivista qui.
18/06/08
Dahmane
Dahmane
Fotografo francese nato a Parigi nel 1959, da padre pittore e madre poetessa, comincia prestissimo a respirare arte e a lavorare nel campo della fotografia.
Sin dagli esordi è attratto dalla fiamma dell'eros che in lui sembra accendersi nella ricerca dello straniante ed eccitante effetto dato dalla presenza di elementi in apparente contrapposizione.
La sua prima pubblicazione è "Promenade erotique à Paris ", raccolta di fotografie in bianco e nero in cui splendide donne passeggiano svestite per la città o posano nude sullo sfondo di paesaggi metropolitani.
La volta successiva è il momento di "Dahmane", un antologia di nudi in cui il contrasto non è tra nudità e il paesaggio quotidiano ma tra la posa sensuale delle modelle e il loro atteggiamento serio e distaccato.
Non è naturalmente un caso l'omonimia dell'opera con il nome dell'autore.
Dahmane comincia a lavorare con modelle che sono anche le sue donne e il lavoro raccoglie le fotto scattate ad Anne, Valerie e Sandrine, sue tre modelle/fidanzate.
Ma è dall'unione artistica e carnale con la meravigliosa modella e attrice porno Chloe de Lysses che nascono i suoi capolavori "Porn Art" e "Porn Art 2".
L'armonia e la pulizia di forme e linee, l'uso costante del bianco e nero, mantengono le stesse suggestioni alla Helmut Newton della sua precedente produzione ma le pose diventano oscene, sfacciatamente pornografiche, con abbondante utilizzo di accessori e oggestica fetish e rendono ancora più stridente il contrasto con l'espressione serena e imperturbabile di Chloe.
Mai prima d'ora il porno era entrato così a pien diritto nel mondo dell'arte.
Ci saranno altri lavori, "Dressed Nudes" e "Erotic Session" e una serie di foto il cui la nudità verrà opposta a contesti fantastici elaborati al computer ma Clhoe non era più con lui e le impervie vette di Porn Art ormai lontane.
Che il sesso sia con voi.
"Personalmente, ho offerto all'obiettivo del fotografo e a l'uomo che vi è dietro, tutta l'impudicizia di una donna libera che sogna di passare attraverso gli anni."
Chloe de Lysses
Fotografo francese nato a Parigi nel 1959, da padre pittore e madre poetessa, comincia prestissimo a respirare arte e a lavorare nel campo della fotografia.
Sin dagli esordi è attratto dalla fiamma dell'eros che in lui sembra accendersi nella ricerca dello straniante ed eccitante effetto dato dalla presenza di elementi in apparente contrapposizione.
La sua prima pubblicazione è "Promenade erotique à Paris ", raccolta di fotografie in bianco e nero in cui splendide donne passeggiano svestite per la città o posano nude sullo sfondo di paesaggi metropolitani.
La volta successiva è il momento di "Dahmane", un antologia di nudi in cui il contrasto non è tra nudità e il paesaggio quotidiano ma tra la posa sensuale delle modelle e il loro atteggiamento serio e distaccato.
Non è naturalmente un caso l'omonimia dell'opera con il nome dell'autore.
Dahmane comincia a lavorare con modelle che sono anche le sue donne e il lavoro raccoglie le fotto scattate ad Anne, Valerie e Sandrine, sue tre modelle/fidanzate.
Ma è dall'unione artistica e carnale con la meravigliosa modella e attrice porno Chloe de Lysses che nascono i suoi capolavori "Porn Art" e "Porn Art 2".
L'armonia e la pulizia di forme e linee, l'uso costante del bianco e nero, mantengono le stesse suggestioni alla Helmut Newton della sua precedente produzione ma le pose diventano oscene, sfacciatamente pornografiche, con abbondante utilizzo di accessori e oggestica fetish e rendono ancora più stridente il contrasto con l'espressione serena e imperturbabile di Chloe.
Mai prima d'ora il porno era entrato così a pien diritto nel mondo dell'arte.
Ci saranno altri lavori, "Dressed Nudes" e "Erotic Session" e una serie di foto il cui la nudità verrà opposta a contesti fantastici elaborati al computer ma Clhoe non era più con lui e le impervie vette di Porn Art ormai lontane.
Che il sesso sia con voi.
"Personalmente, ho offerto all'obiettivo del fotografo e a l'uomo che vi è dietro, tutta l'impudicizia di una donna libera che sogna di passare attraverso gli anni."
Chloe de Lysses
12/06/08
Serge Gainsbourg
Serge Gainsbourg
"Non somiglia a nessuno, e le sue canzoni non ricordano nulla che sia già stato ascoltato. E' alto, fragilissimo, timido, con una voce talmente bassa che la si sente appena...Ma i pezzi che scrive arrivano con violenza al cuore e allo stomaco. Li usa per esprimere qualsiasi cosa - nulla è in grado di fermarlo, perchè non ha il timore di scioccare e non ha accessi di inutile modestia...Non imita nessuno, non tenta mai di mistificare la realtà rendendola più piacevole o vendibile. Ciò che produce non è mai convenzionale o prevedibile. Le idee sono sempre sbalorditive e le parole inattese. Non è un grande cantante come qualità vocale, ma è dotato di qualcosa di nuovo, bizzarro, tormentato, profondo e ultra-moderno. Potete odiarlo o amarlo, ma dovrete riconoscere che Serge Gainsbourg è qualcuno."
(Primo articolo pubblicato su "La Semaine Radiophonique" ad opera di Germaine Ramos inerente l'album di debutto di Gainsbourg, 1958)
Cantautore eclettico e iconoclasta, compositore all'avanguardia, regista dissacrante, romanziere irriverente, appassionato amante di alcune delle più belle attrici del mondo (Brigitte Bardot, Jane Birkin tra le altre), uomo dalla disperata vocazione autodistruttiva, versatile attore con la faccia da cattivo, ubriacone impenitente, intellettuale provocatorio e poeta destabilizzante: questo e altro ancora è stato quel genio che risponde al nome di Serge Gainsbourg, in Italia ingiustamente dimenticato.
La sua produzione musicale nell'arco di trent'anni è stata stupefacente: classica, chanson tradizionale francese, musica etnica, cocktail jazz, pop adolescenziale, rock, reggae, disco music, lounge, rap. Ha rielaborato stili e generi rispettando la tradizione, ma contemporaneamente trascendendola e rinnovandola, fino ad arrivare a regalarci dischi affascinanti e di sconcertante impatto emotivo, che parlano sia al cuore che allo stomaco. Gainsbourg è riuscito a miscelare alla perfezione linguaggio poetico e composizione musicale ottenendo canzoni profondamente originali e non facilmente classificabili. E dietro la minuziosa ricerca formale, Gainsbourg ha sempre affiancato la costante ribellione contro il perbenismo, il gusto della provocazione, il piacere dell'eccesso convogliando i suoi ascoltatori verso le tematiche centrali della sua opera: il disagio esistenziale, la passione amorosa e carnale, le ossessioni mentali, l'inesorabilità del tempo che passa e cancella, il sogno di qualcosa di indefinito che è impossibile raggiungere. Il tutto sempre mitigato da una folgorante ironia, ottenuta grazie alla forza dirompente dei testi, costantemente costellati di fulminanti metafore e doppi sensi.
Come ben scrive Bauducco "i personaggi di Gainsbourg si agitano in un mondo proteiforme che sembra loro non appartenere se non nel momento in cui riconoscono, o credono di riconoscere, la bellezza e l'incanto attraverso lo smarrimento, la disperazione, il vizio, l'ossessione amorosa, l'erotismo randagio, la degradazione fisica e morale. Lo sguardo di Gainsbourg non è mai conciliante. Se talvolta diverte, più spesso urta, ferisce, turba. E' il dramma della lucidità".
Figlio di ebrei russi, profughi nel periodo della rivoluzione, Lucien Ginsburg (questo il suo vero nome) nasce a Parigi nel 1928. La sua vita è già problematica fin dagli albori: la madre, moglie di un musicista, saputo della gravidanza indesiderata si reca, con l'intenzione di abortire, in un ambulatorio improvvisato nella periferia di Parigi. Entrata nella sudicia stanza, viene però colta da un malore alla vista della metallica strumentazione, ancora umida e impiastricciata di umori indefinibili, probabilmente appartenenti alla donna che l'ha preceduta. Questo la convince ad abbandonare il terribile proposito. Serge diceva sempre che "la sua vera fortuna nella vita era stata una lurida bacinella d'ospedale". Il resto della sua infanzia non è facile tra guerra, povertà e tubercolosi. Ma ad un certo punto la fortuna gira: a diciannove anni conosce la modella Elisabeth Levitsky, che lavora come segretaria presso il poeta surrealista francese Georges Hugnet, amico intimo di Salvador Dalì. La villa di Dalì a Parigi viene lasciato libero quando l'artista decide di tornare in Spagna e il fidato Hugnet riceve un mazzo di chiavi per accudire la casa. Serge ed Elisabeth, attraverso astuti stratagemmi, si appropriano delle chiavi...passando una notte di fremente delirio erotico, nudi nell'immaginifico soggiorno di Dalì (con pareti e soffitti tappezzati di astrakan nero) e voluttuosamente distesi su un cumulo di inestimabili opere pittoriche sparse sul pavimento firmate da Picasso, Mirò, Max Ernst e ovviamente Dalì. Serge lascia la villa all'alba con una Gitanes tra le labbra e le idee chiare su quello che sarà il suo futuro. Inizia così la sua carriera artistica come pittore, ma nel 1957 ascolta Boris Vian, autore di canzoni ironicamente crudeli e divertenti: "grazie a Vian, capii che la canzone non meritava di rimanere un mezzo espressivo di secondo ordine, poteva diventare anzi un veicolo per dare sfogo al mio potenziale aggressivo".
Assume così uno zingaro per insegnarli a suonare la chitarra, attratto dalla malinconica e struggente musica gitana, ed inizia a sostituire il padre musicista nei piano-bar dei locali notturni parigini. E' un'attività che presenta molti aspetti positivi per Serge: può fumare e bere durante il lavoro (per tutta la vita fumerà dai tre ai cinque pacchetti di gitanes al giorno e berrà l'inverosimile), ascoltare dal vivo alcuni straordinari musicisti (Billie Holiday, Dizzy Gillespie, Art Tatum, Django Reinhardt tra gli altri) e soprattutto intrecciare relazioni con le clienti femminili, che lo trovano praticamente irresistibile. Alla domanda sul come mai un uomo certo non bello rispetto ai canoni classici avesse così successo con le donne, Serge rispondeva "è un cocktail: la nonchalance dei miei gesti, l'aura della celebrità, e come mi muovo nello spazio, una sorta di -diciamo così- classe".
Il suo debutto discografico avviene nel 1958 col bellissimo "Du chant à la une!", nato da una fusione di ricercato cocktail jazz, pop esistenzialista misto ad un travolgente beat jazz amalgamato coi tratti tipici della chanson francese. "Pezzi cinici, vulnerabili, mordaci, sofisticati, provocatori e crudeli, ma sempre affascinanti e indimenticabili".
Il suo aspetto non convenzionale gli è valso una miriade di partecipazioni come caratterista a svariate pellicole cinematografiche, con ruoli da villain. Scrisse Robert Chalmers sull'Independent: "L'immagine di Gainsbourg, almeno nella sua espressione meno ottimistica, somigliava a quella del poeta Tristan de Corbière, che per anni tenne un rospo spiaccicato inchiodato al muro della sua stanza: diceva che gli risparmiava la fatica di guardarsi allo specchio". A tal proposito Serge rispondeva: "La bruttezza ha una marcia in più rispetto alla bellezza: dura nel tempo". La sua carriera artistica si è sviluppata di pari passo con la storia dei suoi amori. Celeberrima è stata l'intensa relazione intessuta con Brigitte Bardot, indimenticabile in "Comic Strip", vestita come Barbarella e circondata da nuvolette da fumetto con le scritte onomatopeiche "Zip!", "Pow!", "Wiz!". I due scorazzavano per tutti i locali notturni più alla moda, con Brigitte alla guida di una Triumph Spitfire decappottabile, attraversando una Parigi tappezzata di foto di B.B. con indosso vertiginosi stivaloni e minigonna di pelle nera in sella a una moto (la pubblicità di "Harley Davidson", l'ultimo singolo scritto per lei da Serge). I due incisero anche una bollente versione di "Je t’aime, moi non plus", rimasta celata al pubblico per decenni e successivamente portata al successo internazionale da Serge insieme a Jane Birkin. L'altra favolosa storia d'amore della vita di Gainsbourg fu proprio con Jane Birkin e ispirò nel 1971 il concept album "Histoire de Melody Nelson", autentico capolavoro, meditativo e sorprendente, incentrato sulla storia d'amore che lega un uomo francese di mezz'età a una ragazzina inglese minorenne. "Le sonorità di questo nuovo lavoro fanno pensare ad un jukebox degli ultimi anni Sessanta che piomba su un'orchestra che accompagna una lettura di Samuel Taylor Coleridge. Chitarra elettrica in staccato, uso del glissato sul pianoforte, rock quasi psichedelico, archi, un coro di settanta elementi e un basso pieno, grave, ossessivo, onnipresente per tutti i ventotto minuti dell'album e simile alle ruote di una vecchia macchina che spinge la storia verso la sua fatale conclusione. Serge mormora vicino al microfono raccontando una storia di sesso, morte, ossessione e purezza, di un irraggiungibile ideale estetico evocato da una voce tormentata ma impassibile".
La sua ricerca musicale è instancabile e Gainsbourg regala pezzi di successo a personaggi come Juliette Gréco, Pia Colombo, Petula Clark, Michèle Arnaud, Francoise Hardy, Brigitte Bardot, Isabelle Adjani, Julien Clerc, Diane Dufresne e Jane Birkin.
Nel 1975 pubblica "Rock around the bunker", un altro concept album in cui lui, ebreo e perseguitato, affronta il tema del nazismo in chiave grottesca e con feroce humour nero. L’anno successivo, in piena esplosione punk, pubblica "L'homme à la tête de chou", album surreale e nichilista, che descrive con occhio quasi clinico il processo di autodistruzione di un uomo di fronte alla passione.
Nel 1978 si reca in Giamaica per registrare, insieme alla band di Peter Tosh, "Aux armes et cetera", contenente tra l'altro una dissacrante versione reggae de "La Marsigliese", fatto che gli procura minacce di morte da parte dei reduci delle associazioni paramilitari di destra della Guerra d'indipendenza algerina. E' così che la Francia conosce il reggae.
Imprevedibile nelle scelte e negli obiettivi, dopo la fine della storia d'amore con la Birkin, l'artista crea un doppio, un alter ego dissoluto, di nome Gainsbarre. Nei panni di Gainsbarre ne combina una più del diavolo, per esempio quando in diretta televisiva dà fuoco al vil denaro (un reato per la legge francese dell'epoca). Scrive anche un romanzo spietatamente divertente "Evguénie Sokolov" (in Italia "Gasogramma") incentrato su un pittore che crea le sue osannate opere, punta di diamante dell'iperastrattismo, grazie alla vibrazione della mano prodotta attraverso deflagranti peti.
Muore nel 1991 e viene seppellito nel cimitero di Montparnasse a Parigi, meta di un mio emozionante pellegrinaggio.
La sua attività di regista cinematografico merita un post a parte...
"Chiedi a qualunque parigino e ti saprà dire cosa stava facendo quando seppe la notizia della morte di Gainsbourg. Fu un vero e proprio shock. Perchè Gainsbourg era sempre lì, era parte della nostra cultura. Era sempre in televisione a fare qualcosa di folle. Era un poeta. Un punk. E si voleva scopare Whitney Houston (qui)." (Nicolas Godin, Air)
(per approfondimenti: "Serge Gainsbourg - Poesia Senza Filtro" & "Serge Gainsbourg - per un pugno di gitanes", da cui le citazioni nel testo)
"Non somiglia a nessuno, e le sue canzoni non ricordano nulla che sia già stato ascoltato. E' alto, fragilissimo, timido, con una voce talmente bassa che la si sente appena...Ma i pezzi che scrive arrivano con violenza al cuore e allo stomaco. Li usa per esprimere qualsiasi cosa - nulla è in grado di fermarlo, perchè non ha il timore di scioccare e non ha accessi di inutile modestia...Non imita nessuno, non tenta mai di mistificare la realtà rendendola più piacevole o vendibile. Ciò che produce non è mai convenzionale o prevedibile. Le idee sono sempre sbalorditive e le parole inattese. Non è un grande cantante come qualità vocale, ma è dotato di qualcosa di nuovo, bizzarro, tormentato, profondo e ultra-moderno. Potete odiarlo o amarlo, ma dovrete riconoscere che Serge Gainsbourg è qualcuno."
(Primo articolo pubblicato su "La Semaine Radiophonique" ad opera di Germaine Ramos inerente l'album di debutto di Gainsbourg, 1958)
Cantautore eclettico e iconoclasta, compositore all'avanguardia, regista dissacrante, romanziere irriverente, appassionato amante di alcune delle più belle attrici del mondo (Brigitte Bardot, Jane Birkin tra le altre), uomo dalla disperata vocazione autodistruttiva, versatile attore con la faccia da cattivo, ubriacone impenitente, intellettuale provocatorio e poeta destabilizzante: questo e altro ancora è stato quel genio che risponde al nome di Serge Gainsbourg, in Italia ingiustamente dimenticato.
La sua produzione musicale nell'arco di trent'anni è stata stupefacente: classica, chanson tradizionale francese, musica etnica, cocktail jazz, pop adolescenziale, rock, reggae, disco music, lounge, rap. Ha rielaborato stili e generi rispettando la tradizione, ma contemporaneamente trascendendola e rinnovandola, fino ad arrivare a regalarci dischi affascinanti e di sconcertante impatto emotivo, che parlano sia al cuore che allo stomaco. Gainsbourg è riuscito a miscelare alla perfezione linguaggio poetico e composizione musicale ottenendo canzoni profondamente originali e non facilmente classificabili. E dietro la minuziosa ricerca formale, Gainsbourg ha sempre affiancato la costante ribellione contro il perbenismo, il gusto della provocazione, il piacere dell'eccesso convogliando i suoi ascoltatori verso le tematiche centrali della sua opera: il disagio esistenziale, la passione amorosa e carnale, le ossessioni mentali, l'inesorabilità del tempo che passa e cancella, il sogno di qualcosa di indefinito che è impossibile raggiungere. Il tutto sempre mitigato da una folgorante ironia, ottenuta grazie alla forza dirompente dei testi, costantemente costellati di fulminanti metafore e doppi sensi.
Come ben scrive Bauducco "i personaggi di Gainsbourg si agitano in un mondo proteiforme che sembra loro non appartenere se non nel momento in cui riconoscono, o credono di riconoscere, la bellezza e l'incanto attraverso lo smarrimento, la disperazione, il vizio, l'ossessione amorosa, l'erotismo randagio, la degradazione fisica e morale. Lo sguardo di Gainsbourg non è mai conciliante. Se talvolta diverte, più spesso urta, ferisce, turba. E' il dramma della lucidità".
Figlio di ebrei russi, profughi nel periodo della rivoluzione, Lucien Ginsburg (questo il suo vero nome) nasce a Parigi nel 1928. La sua vita è già problematica fin dagli albori: la madre, moglie di un musicista, saputo della gravidanza indesiderata si reca, con l'intenzione di abortire, in un ambulatorio improvvisato nella periferia di Parigi. Entrata nella sudicia stanza, viene però colta da un malore alla vista della metallica strumentazione, ancora umida e impiastricciata di umori indefinibili, probabilmente appartenenti alla donna che l'ha preceduta. Questo la convince ad abbandonare il terribile proposito. Serge diceva sempre che "la sua vera fortuna nella vita era stata una lurida bacinella d'ospedale". Il resto della sua infanzia non è facile tra guerra, povertà e tubercolosi. Ma ad un certo punto la fortuna gira: a diciannove anni conosce la modella Elisabeth Levitsky, che lavora come segretaria presso il poeta surrealista francese Georges Hugnet, amico intimo di Salvador Dalì. La villa di Dalì a Parigi viene lasciato libero quando l'artista decide di tornare in Spagna e il fidato Hugnet riceve un mazzo di chiavi per accudire la casa. Serge ed Elisabeth, attraverso astuti stratagemmi, si appropriano delle chiavi...passando una notte di fremente delirio erotico, nudi nell'immaginifico soggiorno di Dalì (con pareti e soffitti tappezzati di astrakan nero) e voluttuosamente distesi su un cumulo di inestimabili opere pittoriche sparse sul pavimento firmate da Picasso, Mirò, Max Ernst e ovviamente Dalì. Serge lascia la villa all'alba con una Gitanes tra le labbra e le idee chiare su quello che sarà il suo futuro. Inizia così la sua carriera artistica come pittore, ma nel 1957 ascolta Boris Vian, autore di canzoni ironicamente crudeli e divertenti: "grazie a Vian, capii che la canzone non meritava di rimanere un mezzo espressivo di secondo ordine, poteva diventare anzi un veicolo per dare sfogo al mio potenziale aggressivo".
Assume così uno zingaro per insegnarli a suonare la chitarra, attratto dalla malinconica e struggente musica gitana, ed inizia a sostituire il padre musicista nei piano-bar dei locali notturni parigini. E' un'attività che presenta molti aspetti positivi per Serge: può fumare e bere durante il lavoro (per tutta la vita fumerà dai tre ai cinque pacchetti di gitanes al giorno e berrà l'inverosimile), ascoltare dal vivo alcuni straordinari musicisti (Billie Holiday, Dizzy Gillespie, Art Tatum, Django Reinhardt tra gli altri) e soprattutto intrecciare relazioni con le clienti femminili, che lo trovano praticamente irresistibile. Alla domanda sul come mai un uomo certo non bello rispetto ai canoni classici avesse così successo con le donne, Serge rispondeva "è un cocktail: la nonchalance dei miei gesti, l'aura della celebrità, e come mi muovo nello spazio, una sorta di -diciamo così- classe".
Il suo debutto discografico avviene nel 1958 col bellissimo "Du chant à la une!", nato da una fusione di ricercato cocktail jazz, pop esistenzialista misto ad un travolgente beat jazz amalgamato coi tratti tipici della chanson francese. "Pezzi cinici, vulnerabili, mordaci, sofisticati, provocatori e crudeli, ma sempre affascinanti e indimenticabili".
Il suo aspetto non convenzionale gli è valso una miriade di partecipazioni come caratterista a svariate pellicole cinematografiche, con ruoli da villain. Scrisse Robert Chalmers sull'Independent: "L'immagine di Gainsbourg, almeno nella sua espressione meno ottimistica, somigliava a quella del poeta Tristan de Corbière, che per anni tenne un rospo spiaccicato inchiodato al muro della sua stanza: diceva che gli risparmiava la fatica di guardarsi allo specchio". A tal proposito Serge rispondeva: "La bruttezza ha una marcia in più rispetto alla bellezza: dura nel tempo". La sua carriera artistica si è sviluppata di pari passo con la storia dei suoi amori. Celeberrima è stata l'intensa relazione intessuta con Brigitte Bardot, indimenticabile in "Comic Strip", vestita come Barbarella e circondata da nuvolette da fumetto con le scritte onomatopeiche "Zip!", "Pow!", "Wiz!". I due scorazzavano per tutti i locali notturni più alla moda, con Brigitte alla guida di una Triumph Spitfire decappottabile, attraversando una Parigi tappezzata di foto di B.B. con indosso vertiginosi stivaloni e minigonna di pelle nera in sella a una moto (la pubblicità di "Harley Davidson", l'ultimo singolo scritto per lei da Serge). I due incisero anche una bollente versione di "Je t’aime, moi non plus", rimasta celata al pubblico per decenni e successivamente portata al successo internazionale da Serge insieme a Jane Birkin. L'altra favolosa storia d'amore della vita di Gainsbourg fu proprio con Jane Birkin e ispirò nel 1971 il concept album "Histoire de Melody Nelson", autentico capolavoro, meditativo e sorprendente, incentrato sulla storia d'amore che lega un uomo francese di mezz'età a una ragazzina inglese minorenne. "Le sonorità di questo nuovo lavoro fanno pensare ad un jukebox degli ultimi anni Sessanta che piomba su un'orchestra che accompagna una lettura di Samuel Taylor Coleridge. Chitarra elettrica in staccato, uso del glissato sul pianoforte, rock quasi psichedelico, archi, un coro di settanta elementi e un basso pieno, grave, ossessivo, onnipresente per tutti i ventotto minuti dell'album e simile alle ruote di una vecchia macchina che spinge la storia verso la sua fatale conclusione. Serge mormora vicino al microfono raccontando una storia di sesso, morte, ossessione e purezza, di un irraggiungibile ideale estetico evocato da una voce tormentata ma impassibile".
La sua ricerca musicale è instancabile e Gainsbourg regala pezzi di successo a personaggi come Juliette Gréco, Pia Colombo, Petula Clark, Michèle Arnaud, Francoise Hardy, Brigitte Bardot, Isabelle Adjani, Julien Clerc, Diane Dufresne e Jane Birkin.
Nel 1975 pubblica "Rock around the bunker", un altro concept album in cui lui, ebreo e perseguitato, affronta il tema del nazismo in chiave grottesca e con feroce humour nero. L’anno successivo, in piena esplosione punk, pubblica "L'homme à la tête de chou", album surreale e nichilista, che descrive con occhio quasi clinico il processo di autodistruzione di un uomo di fronte alla passione.
Nel 1978 si reca in Giamaica per registrare, insieme alla band di Peter Tosh, "Aux armes et cetera", contenente tra l'altro una dissacrante versione reggae de "La Marsigliese", fatto che gli procura minacce di morte da parte dei reduci delle associazioni paramilitari di destra della Guerra d'indipendenza algerina. E' così che la Francia conosce il reggae.
Imprevedibile nelle scelte e negli obiettivi, dopo la fine della storia d'amore con la Birkin, l'artista crea un doppio, un alter ego dissoluto, di nome Gainsbarre. Nei panni di Gainsbarre ne combina una più del diavolo, per esempio quando in diretta televisiva dà fuoco al vil denaro (un reato per la legge francese dell'epoca). Scrive anche un romanzo spietatamente divertente "Evguénie Sokolov" (in Italia "Gasogramma") incentrato su un pittore che crea le sue osannate opere, punta di diamante dell'iperastrattismo, grazie alla vibrazione della mano prodotta attraverso deflagranti peti.
Muore nel 1991 e viene seppellito nel cimitero di Montparnasse a Parigi, meta di un mio emozionante pellegrinaggio.
La sua attività di regista cinematografico merita un post a parte...
"Chiedi a qualunque parigino e ti saprà dire cosa stava facendo quando seppe la notizia della morte di Gainsbourg. Fu un vero e proprio shock. Perchè Gainsbourg era sempre lì, era parte della nostra cultura. Era sempre in televisione a fare qualcosa di folle. Era un poeta. Un punk. E si voleva scopare Whitney Houston (qui)." (Nicolas Godin, Air)
(per approfondimenti: "Serge Gainsbourg - Poesia Senza Filtro" & "Serge Gainsbourg - per un pugno di gitanes", da cui le citazioni nel testo)
07/06/08
La Corrida Convessa
La Corrida Convessa
Frammento di una conversazione tra Alejandro Jodorowsky e il torero Diego Bardon (1971)
Alejandro: Come organizzeresti una corrida contestataria in un'arena normale?
Diego: Comincerei vestito e mi spoglierei poco a poco. Comparirei in costume da astronauta con sopra una tonaca. Riempirei le gradinate scoperte di fachiri, cultori di yoga e monaci. Nelle "callejon" (piccoli corridoi da cui escono i toreri) metterei delle prostitute di Salamanca (la Margot e la Cartones) e André il lustrascarpe. La Margot mi trasmetterebbe la facoltà di controllare il mio corpo dandomi dei poteri da fachiro. La Cardones mi darebbe la potenza spirituale di un monaco e André il lustrascarpe il controllo emozionale di un cultore di yoga. Grazie alla captazione telepatica di questi poteri, potrei spogliarmi dei costumi da astronauta e da prete, e attenderei la divinità rimanendo nudo. La divinità deve essere epidermica. Grazie ai miei poteri divini farei librare il toro, lo farei ondeggiare e danzare nell'aria mentre io e tutti gli altri, le prostitute, il lustrascarpe, i cultori yoga, i monaci, i fachiri e anche dei nugoli di nane incinta, formeremmo un'unità aerea, in cui il toro sarebbe un astro e gli altri il resto di un sistema galattico il cui centro solare sarebbe mutevole: a ciascuno di noi toccherebbe esserlo per un momento, poi cederemmo il centro ad un altro. Poiché i sistemi solari hanno un'organizzazione gerarchica come la destra o la sinistra, potremmo infine contare su un sistema solare organizzato anarchicamente...dichiaro finito il "paseillo" (piccola sfilata) e chiedo che al suo posto venga chiamato un gruppo di professori universitari in toga che tenga dei corsi di geometria religiosa a dei mulattieri. Le coagnizioni, trasmesse attraverso microfoni e altoparlanti in tutta l'arena, si riferiranno alla convessità e alla concavità (che sono i due principi creatori dell'universo). Il Concavo è il Diavolo, che racchiude nel suo cerchio i tre mali: il potere, la coscienza della colpa non espiabile e la morte. Il Convesso è il Dio Buono, che diffonde nell'universo i doni del Bacio. Il Bacio, principale creazione della convessità, cade in potere dell'uomo che lo fa evolvere fino al male. Fino ad allora era il Bacio, el Beso, Con Beso, Conbexo, Convexo...Adesso è un bacio concavo; nel bacio concavo, c'è il cavo, con questo bacio cado nel cavo, nella tomba tragica. La tragedia è la corrida attuale, conservatrice, storica. Il torero torea in modo concavo, narcisistico, con dei movimenti che vanno dalla periferia verso il centro, verso sé stesso, in una sorta di onanismo. Per vincere la tragedia si dovrà toreare con dei movimenti convessi, per raggiungere il "con beso" collettivo.
Alejandro: Come realizzeresti il combattimento convesso?
Diego: Potrei ottenerlo moltiplicando le "muletas". Ne avrei una in ogni mano e dieci o dodici per terra. Grazie ad esse potrei ottenere infinite possibilità di passi, che sono altrettante infinite possibilità di amare...il torero può cambiare vestito, vestirsi, svestirsi, dipingersi il corpo, tatuarsi, mutilarsi, farsi incornare dal toro. In uno stato di sonno ipnotico e di divinazione si possono affrontare le cariche del toro senza essere feriti. Durante una corrida, io mi sono gettato sul toro e mi sono lasciato colpire diciotto volte senza farmi niente. Si possono mettere le banderillas una per una. La lancia del picador può racchiudere delle farfalle tropicali viventi, in modo che, al momento di picare il toro, si apra uno sportellino che lascia sfuggire una nuvola multicolore...
Alejandro: Diego Bardon, con questa intervista lasci la porta aperta alle nuove generazioni di toreri perché diano libero corso al loro spirito, sprigionino l'immaginazione, si spoglino dei loro travestimenti goyeschi e inventino nuove forme per esprimersi da soli e far saltare in aria una tradizione destinata a morire.
Diego: Una volta raggiunta la Convessità, la "Festa" dovrà sparire. Se delle forze cosmiche sconosciute si opponessero, i toreri dovrebbero autoincenerirsi come dei bonzi.
(da Panico! a cura di Antonio Bertoli - Giunti Citylights)
Frammento di una conversazione tra Alejandro Jodorowsky e il torero Diego Bardon (1971)
Alejandro: Come organizzeresti una corrida contestataria in un'arena normale?
Diego: Comincerei vestito e mi spoglierei poco a poco. Comparirei in costume da astronauta con sopra una tonaca. Riempirei le gradinate scoperte di fachiri, cultori di yoga e monaci. Nelle "callejon" (piccoli corridoi da cui escono i toreri) metterei delle prostitute di Salamanca (la Margot e la Cartones) e André il lustrascarpe. La Margot mi trasmetterebbe la facoltà di controllare il mio corpo dandomi dei poteri da fachiro. La Cardones mi darebbe la potenza spirituale di un monaco e André il lustrascarpe il controllo emozionale di un cultore di yoga. Grazie alla captazione telepatica di questi poteri, potrei spogliarmi dei costumi da astronauta e da prete, e attenderei la divinità rimanendo nudo. La divinità deve essere epidermica. Grazie ai miei poteri divini farei librare il toro, lo farei ondeggiare e danzare nell'aria mentre io e tutti gli altri, le prostitute, il lustrascarpe, i cultori yoga, i monaci, i fachiri e anche dei nugoli di nane incinta, formeremmo un'unità aerea, in cui il toro sarebbe un astro e gli altri il resto di un sistema galattico il cui centro solare sarebbe mutevole: a ciascuno di noi toccherebbe esserlo per un momento, poi cederemmo il centro ad un altro. Poiché i sistemi solari hanno un'organizzazione gerarchica come la destra o la sinistra, potremmo infine contare su un sistema solare organizzato anarchicamente...dichiaro finito il "paseillo" (piccola sfilata) e chiedo che al suo posto venga chiamato un gruppo di professori universitari in toga che tenga dei corsi di geometria religiosa a dei mulattieri. Le coagnizioni, trasmesse attraverso microfoni e altoparlanti in tutta l'arena, si riferiranno alla convessità e alla concavità (che sono i due principi creatori dell'universo). Il Concavo è il Diavolo, che racchiude nel suo cerchio i tre mali: il potere, la coscienza della colpa non espiabile e la morte. Il Convesso è il Dio Buono, che diffonde nell'universo i doni del Bacio. Il Bacio, principale creazione della convessità, cade in potere dell'uomo che lo fa evolvere fino al male. Fino ad allora era il Bacio, el Beso, Con Beso, Conbexo, Convexo...Adesso è un bacio concavo; nel bacio concavo, c'è il cavo, con questo bacio cado nel cavo, nella tomba tragica. La tragedia è la corrida attuale, conservatrice, storica. Il torero torea in modo concavo, narcisistico, con dei movimenti che vanno dalla periferia verso il centro, verso sé stesso, in una sorta di onanismo. Per vincere la tragedia si dovrà toreare con dei movimenti convessi, per raggiungere il "con beso" collettivo.
Alejandro: Come realizzeresti il combattimento convesso?
Diego: Potrei ottenerlo moltiplicando le "muletas". Ne avrei una in ogni mano e dieci o dodici per terra. Grazie ad esse potrei ottenere infinite possibilità di passi, che sono altrettante infinite possibilità di amare...il torero può cambiare vestito, vestirsi, svestirsi, dipingersi il corpo, tatuarsi, mutilarsi, farsi incornare dal toro. In uno stato di sonno ipnotico e di divinazione si possono affrontare le cariche del toro senza essere feriti. Durante una corrida, io mi sono gettato sul toro e mi sono lasciato colpire diciotto volte senza farmi niente. Si possono mettere le banderillas una per una. La lancia del picador può racchiudere delle farfalle tropicali viventi, in modo che, al momento di picare il toro, si apra uno sportellino che lascia sfuggire una nuvola multicolore...
Alejandro: Diego Bardon, con questa intervista lasci la porta aperta alle nuove generazioni di toreri perché diano libero corso al loro spirito, sprigionino l'immaginazione, si spoglino dei loro travestimenti goyeschi e inventino nuove forme per esprimersi da soli e far saltare in aria una tradizione destinata a morire.
Diego: Una volta raggiunta la Convessità, la "Festa" dovrà sparire. Se delle forze cosmiche sconosciute si opponessero, i toreri dovrebbero autoincenerirsi come dei bonzi.
(da Panico! a cura di Antonio Bertoli - Giunti Citylights)
06/06/08
Love is the Devil
Love is the Devil - Study for a Portrait of Francis Bacon
di John Maybury (1998 GB 94')
con Derek Jacobi, Daniel Craig, Tilda Swinton, Anne Lambton, Adrian Scarborough.
Il film di Maybury è una biografia non autorizzata (per questo non vi appaiono opere dell'artista) di Francis Bacon, che ricostruisce il travagliato rapporto tra il celebre pittore irlandese e il giovane ladro George Dyer, scoperto dall'artista nella sua casa durante un tentativo di furto e da quel momento incredibilmente divenuto suo amante (e modello) per sette tormentati anni (dal 1964 al 1971).
Nel film è ritratta la vita dissipata dell'artista (che ha ispirato a Bertolucci il personaggio di Brando in "Ultimo Tango a Parigi"), personaggio tanto ambiguo ed instabile, quanto ribelle ed anticonformista.
Ciò che emerge con forza è il suo individualismo estremo unito ad una apparentemente spensierata disinvoltura e crudeltà nei rapporti umani, la stessa che lo portava ad affermare: "io mi considero come una specie di macchina polverizzatrice...oggi non c'è più nessuno con cui parlare". Bacon ne emerge come uno sregolato marginale, succube di una volontà soggiogata dall'istinto e incapace di rapporti umani profondi a causa del proprio radicale nichilismo, immerso nel suo atelier/fottitoio e dedito alla ricerca del piacere con qualsiasi mezzo: "amo vivere nel caos - il caos mi suggerisce delle immagini". Ma è con la sua arte che Bacon raggiunge il sublime, lanciando manciate di pittura sulla tela, plasmandole selvaggiamente con le mani, con il pennello e con altri mezzi diretti e poco convenzionali (il coperchio/cerchio nel film): si tratta di affermare la propria presenza in tutta la sua "brutalità di fatto", afferrando l'essenzialità del grido, la torsione, la stretta sessuale. I suoi personaggi vengono sbalzati violentemente in primo piano, i volti deformati e tumefatti, le carni (massacrate da rabbiose pennellate) issate su uno sgabello, una sedia o un letto, alla stregua di quarti di bue esposti in una macelleria. Un senso di costrizione ci attanaglia, in quanto sembra che i personaggi si siano volontariamente rinchiusi in una dimensione di prigionia. Francis Bacon li dipinge come figure che si contorcono urlando al mondo il proprio dolore. "L'uomo sa ora che è soltanto un accidente, che è un essere completamente vano, che deve interpretare la sua parte senza altro scopo o giustificazione che non siano le sue scelte".
Maybury è sia regista (fu allievo di Jarman) che pittore e riesce miracolosamente a ricreare in pellicola le atmosfere dell'arte di Bacon, restituendoci intatto il suo messaggio ed evidenziando come tra arte e vita non vi siano, a volte, soluzioni di continuità. Maybury, aperte le valvole della sensazione, inventa un film dalle immagini straordinarie, grazie a numerosi sfolgoranti effetti visivi uniti a riprese assai originali. Il film appare pervaso dall'idea della corruzione e della fragilità della carne e, strutturandosi in brevi flash e sequenze improvvise sospese tra mondo reale e mondo onirico, visualizza osceni frammenti di esistenza ai quali risulta impossibile rimanere indifferenti.
Al centro di tutta la vicenda vi è la morte del suo amante George Dyer, suicidatosi in un albergo di Parigi nel 1971, alla vigilia della mostra dedicata a Francis Bacon dal Grand Palais. "E' possibile che a partire dalla disperazione si arrivi a creare l'immagine più radicale, correndo rischi maggiori".
Indimenticabile Derek Jacobi che, letteralmente, annulla la distanza tra attore e personaggio e grazie ad una recitazione viscerale e sofferta riesce a delineare contemporaneamente la difficoltà comunicativa emozionale, la strisciante paura della morte e la desolante ansia di solitudine dell'artista, annientato umanamente dalla sua lacerante ricerca artistica.
"Sapevo che volevo mettere due figure su un letto, e volevo mostrarle mentre copulavano o s'inculavano - quale che sia il nome che vogliate dargli - ma non sapevo come fare perchè quell'azione avesse la forza della sensazione che io provavo per quella cosa: non ho potuto fare altro che rimettermi alla buona fortuna per tentare di realizzarne un'immagine" (Francis Bacon)
Francis Bacon a Milano fino al 24 Agosto
(nel post citazioni da dichiarazioni di Francis Bacon)
di John Maybury (1998 GB 94')
con Derek Jacobi, Daniel Craig, Tilda Swinton, Anne Lambton, Adrian Scarborough.
Il film di Maybury è una biografia non autorizzata (per questo non vi appaiono opere dell'artista) di Francis Bacon, che ricostruisce il travagliato rapporto tra il celebre pittore irlandese e il giovane ladro George Dyer, scoperto dall'artista nella sua casa durante un tentativo di furto e da quel momento incredibilmente divenuto suo amante (e modello) per sette tormentati anni (dal 1964 al 1971).
Nel film è ritratta la vita dissipata dell'artista (che ha ispirato a Bertolucci il personaggio di Brando in "Ultimo Tango a Parigi"), personaggio tanto ambiguo ed instabile, quanto ribelle ed anticonformista.
Ciò che emerge con forza è il suo individualismo estremo unito ad una apparentemente spensierata disinvoltura e crudeltà nei rapporti umani, la stessa che lo portava ad affermare: "io mi considero come una specie di macchina polverizzatrice...oggi non c'è più nessuno con cui parlare". Bacon ne emerge come uno sregolato marginale, succube di una volontà soggiogata dall'istinto e incapace di rapporti umani profondi a causa del proprio radicale nichilismo, immerso nel suo atelier/fottitoio e dedito alla ricerca del piacere con qualsiasi mezzo: "amo vivere nel caos - il caos mi suggerisce delle immagini". Ma è con la sua arte che Bacon raggiunge il sublime, lanciando manciate di pittura sulla tela, plasmandole selvaggiamente con le mani, con il pennello e con altri mezzi diretti e poco convenzionali (il coperchio/cerchio nel film): si tratta di affermare la propria presenza in tutta la sua "brutalità di fatto", afferrando l'essenzialità del grido, la torsione, la stretta sessuale. I suoi personaggi vengono sbalzati violentemente in primo piano, i volti deformati e tumefatti, le carni (massacrate da rabbiose pennellate) issate su uno sgabello, una sedia o un letto, alla stregua di quarti di bue esposti in una macelleria. Un senso di costrizione ci attanaglia, in quanto sembra che i personaggi si siano volontariamente rinchiusi in una dimensione di prigionia. Francis Bacon li dipinge come figure che si contorcono urlando al mondo il proprio dolore. "L'uomo sa ora che è soltanto un accidente, che è un essere completamente vano, che deve interpretare la sua parte senza altro scopo o giustificazione che non siano le sue scelte".
Maybury è sia regista (fu allievo di Jarman) che pittore e riesce miracolosamente a ricreare in pellicola le atmosfere dell'arte di Bacon, restituendoci intatto il suo messaggio ed evidenziando come tra arte e vita non vi siano, a volte, soluzioni di continuità. Maybury, aperte le valvole della sensazione, inventa un film dalle immagini straordinarie, grazie a numerosi sfolgoranti effetti visivi uniti a riprese assai originali. Il film appare pervaso dall'idea della corruzione e della fragilità della carne e, strutturandosi in brevi flash e sequenze improvvise sospese tra mondo reale e mondo onirico, visualizza osceni frammenti di esistenza ai quali risulta impossibile rimanere indifferenti.
Al centro di tutta la vicenda vi è la morte del suo amante George Dyer, suicidatosi in un albergo di Parigi nel 1971, alla vigilia della mostra dedicata a Francis Bacon dal Grand Palais. "E' possibile che a partire dalla disperazione si arrivi a creare l'immagine più radicale, correndo rischi maggiori".
Indimenticabile Derek Jacobi che, letteralmente, annulla la distanza tra attore e personaggio e grazie ad una recitazione viscerale e sofferta riesce a delineare contemporaneamente la difficoltà comunicativa emozionale, la strisciante paura della morte e la desolante ansia di solitudine dell'artista, annientato umanamente dalla sua lacerante ricerca artistica.
"Sapevo che volevo mettere due figure su un letto, e volevo mostrarle mentre copulavano o s'inculavano - quale che sia il nome che vogliate dargli - ma non sapevo come fare perchè quell'azione avesse la forza della sensazione che io provavo per quella cosa: non ho potuto fare altro che rimettermi alla buona fortuna per tentare di realizzarne un'immagine" (Francis Bacon)
Francis Bacon a Milano fino al 24 Agosto
(nel post citazioni da dichiarazioni di Francis Bacon)
04/06/08
The Reflecting Skin - Riflessi sulla pelle
Riflessi sulla pelle - The Reflecting Skin
di Philip Ridley (1990 GB/CAN 95')
con Viggo Mortensen, Jeremy Cooper, Lindsay Duncan, Duncan Fraser
Primo indimenticabile film di Philip Ridley, incubo delirante di straordinaria bellezza, che divenne un istantaneo e maledetto cult movie ai festival di Cannes e Locarno nel 1990, per poi perdersi irrimediabilmente nella inaffidabile memoria collettiva.
Philip Ridley è un artista a 360 gradi, degno della nostra ammirata venerazione: pittore (a 14 anni tenne la sua prima personale), scrittore (celebri i suoi romanzi per ragazzi quali "In the eyes of Mr Fury", "Flamingoes in Orbit", "Kasper in the Glitter", "Meteorite Spoon", "Scribbleboy"), drammaturgo ("Leaves of Glass" tra gli altri), sceneggiatore (sua la sceneggiatura de "The Krays" di Medak), fotografo e cineasta (per ora solo un altro film "The Passion of Darkly Noon", oltre ad un paio di cortometraggi). Unico artista britannico ad aver ricevuto dall'Evening Standard, il premio rivelazione sia per il Cinema che per la Drammaturgia.
"The Reflecting Skin" adotta il punto di vista di un ragazzino, di nome Seth Dove, per rappresentare il microcosmo della provincia rurale americana post-bellica degli anni Cinquanta. Un universo a sé stante, fatto di accecanti campi di grano e immense distese pianeggianti, ma anche di fatiscenti catapecchie in legno, abitate da povera gente comune, frustrata e delusa, con tanto spazio attorno e molto vuoto dentro. Un film in cui la nostra sensibilità e le nostre certezze vengono stordite e corrose piano piano. Fin dall'incipit splatter, il film fa venire i brividi: una gigantesca rana toro viene gonfiata con una cannuccia da dei ragazzini per poi essere colpita con una fionda, esplodendo così addosso ad una pallida donna vestita a lutto, che percorre un viottolo tra campi di grano abbagliati dal sole.
La storia del film, rifiutando compromessi, è narrata a più livelli e si regge sull'ambiguità più assoluta. Difficile inizialmente capire se il microcosmo di provincia in cui vive Seth appaia infernale, perchè frutto di un invenzione della fantasia del bambino o perchè lo sia effettivamente. Poi la storia progredisce e la realtà si rivela inequivocabilmente come inquietante e oscura, costellata da bizzarri personaggi e intrisa di un orrore e una crudeltà razionalmente inesplicabili e certo fomentati dall'ignoranza e dai pregiudizi delle persone.
I bambini ritratti da Ridley non hanno nessun aggancio con gli adulti, ma finiscono inevitabilmente per assimilarne la strisciante sofferenza nevrotica: la vedova dal vestito scuro è per Seth un vampiro perché così è scritto nel libro che il padre legge in continuazione; se l'amichetto Emen, ucciso da una banda di giovani pervertiti che perlustrano incessantemente le strade su una grossa Cadillac nera, si è trasformato in un angelo del cielo perchè così dicono le mamme disperate, allora il feto che Seth ritrova abbandonato in un fienile altri non può essere che la reincarnazione di Emen, benevolo angelo dalle ali strappate, tornato a proteggere i compagni di giochi di un tempo.
Ciò che nel film lascia a bocca aperta è la straordinaria capacità fascinatoria visiva del regista (con tramonti e albe in tele a tutto schermo) e il virtuosismo della sua fotografia, che ci regala paesaggi di meravigliosa bellezza figurativa, che rievocano le migliori opere di Van Gogh e Hopper, raffigurando una natura incontaminata, assolutamente indifferente nella sua statica bellezza alla insensata stupidità e barbarie degli esseri umani. Da segnalare anche la straordinaria colonna sonora ad opera di Nick Bicat. L'opprimente mondo raffigurato da Ridley è dominato dalla solitudine e dalla perdita e per il piccolo Seth una flebile speranza sembra essere rappresentata dall'eroico ritorno del fratello maggiore Cameron (interpretato da un incisivo Viggo Mortensen) dalle "isole del Paradiso", dove a quei tempi si stavano svolgendo esperimenti con l'atomica e dove i bambini nascevano con la pelle argentata (la Reflecting Skin del titolo). La straziante storia d'amore che nascerà tra il condannato Cameron (irrimediabilmente contaminato dalle radiazioni) e la vedova Dolphin Blue spaventerà il piccolo Seth, che farà di tutto per ostacolarla, proprio per il fatto che molti indizi fanno presumere la donna, nella fantasia infantile, una vampira (ha la casa piena di attrezzi per la caccia alle balene e ricorda il marito dal suo profumo e da alcuni resti delle sue cose, che gelosamente custodisce in una scatola).
Le figure che dovrebbero proteggere Seth sono zeppe di tare e disperazione: il padre viene accusato dell'omicidio dell'amico di Seth, a causa di un precedente (era stato sorpreso con un ragazzino diciassette anni prima e si è poi sposato per coprire lo scandalo), si suicida dandosi fuoco insieme a tutto il suo distributore di benzina, la madre è una psicotica senza speranza che perde la parola, il minaccioso sceriffo senza un occhio e una mano e con l'orecchio mozzato (a causa di presunti scontri con uno squalo, un puma e feroci malviventi) sembra provenire direttamente da "Twin Peaks", così come due inquietanti gemelle vestite di scuro che si aggirano nei campi assolati facendo il verso del tacchino.
I giovani assassini pervertiti, che scorazzano in Cadillac, sono implacabili, ma sfiorano e risparmiano il giovane Seth; il quale, pur assistendo al fatto che le persone uccise abbiano tutte ricevuto poco prima di morire un passaggio dalla banda, mantiene il segreto di fronte alle morbose domande dello sceriffo. Il capo-banda in giubbotto di pelle nera che guida è, infatti, il doppio speculare di Seth stesso; costui è ciò che Seth sarà tra pochi anni, dopo tanta violenza vissuta, introiettata e incisa nell'anima. Il bambino non è mai un adulto in scala ridotta. E' un altro modo di essere, assolutamente peculiare e diversissimo. Il bambino assorbe. La violenza psicologica sommersa sedimenta gradualmente. Anche Dolphin Blue verrà caricata dalla terribile banda sulla minacciosa auto nera, e solo vedendo il fratello disperato piangere sul corpo esanime della donna, il piccolo Seth perderà per sempre la sua ingenuità e innocenza. Non gli rimarrà che fuggire, correndo tra i campi di grano, immerso in un rosso tramonto di fuoco, urlando tutta la propria sofferenza e angoscia esistenziale, sentendosi in parte responsabile degli orrori vissuti, come i pregiudizi degli abitanti gli hanno fatto credere accusandolo di essere Satana. Seth nel finale non piange, urla a squarciagola la sua totale incompatibilità con un mondo esterno allucinante, chiudendo un film capace di segnare indelebilmente la nostra anima, al tempo stesso incantandoci e sconvolgendoci. Rimarcando quanto l'ignoranza e i pregiudizi siano i principali responsabili nel generare mostri.
(dipinto di Ernst Fuchs)
"If you live long enough, some awful bad (stuff's) gonna happen to ya"
(post dolente elaborato con spunti di Flavio De Bernardis)
di Philip Ridley (1990 GB/CAN 95')
con Viggo Mortensen, Jeremy Cooper, Lindsay Duncan, Duncan Fraser
Primo indimenticabile film di Philip Ridley, incubo delirante di straordinaria bellezza, che divenne un istantaneo e maledetto cult movie ai festival di Cannes e Locarno nel 1990, per poi perdersi irrimediabilmente nella inaffidabile memoria collettiva.
Philip Ridley è un artista a 360 gradi, degno della nostra ammirata venerazione: pittore (a 14 anni tenne la sua prima personale), scrittore (celebri i suoi romanzi per ragazzi quali "In the eyes of Mr Fury", "Flamingoes in Orbit", "Kasper in the Glitter", "Meteorite Spoon", "Scribbleboy"), drammaturgo ("Leaves of Glass" tra gli altri), sceneggiatore (sua la sceneggiatura de "The Krays" di Medak), fotografo e cineasta (per ora solo un altro film "The Passion of Darkly Noon", oltre ad un paio di cortometraggi). Unico artista britannico ad aver ricevuto dall'Evening Standard, il premio rivelazione sia per il Cinema che per la Drammaturgia.
"The Reflecting Skin" adotta il punto di vista di un ragazzino, di nome Seth Dove, per rappresentare il microcosmo della provincia rurale americana post-bellica degli anni Cinquanta. Un universo a sé stante, fatto di accecanti campi di grano e immense distese pianeggianti, ma anche di fatiscenti catapecchie in legno, abitate da povera gente comune, frustrata e delusa, con tanto spazio attorno e molto vuoto dentro. Un film in cui la nostra sensibilità e le nostre certezze vengono stordite e corrose piano piano. Fin dall'incipit splatter, il film fa venire i brividi: una gigantesca rana toro viene gonfiata con una cannuccia da dei ragazzini per poi essere colpita con una fionda, esplodendo così addosso ad una pallida donna vestita a lutto, che percorre un viottolo tra campi di grano abbagliati dal sole.
La storia del film, rifiutando compromessi, è narrata a più livelli e si regge sull'ambiguità più assoluta. Difficile inizialmente capire se il microcosmo di provincia in cui vive Seth appaia infernale, perchè frutto di un invenzione della fantasia del bambino o perchè lo sia effettivamente. Poi la storia progredisce e la realtà si rivela inequivocabilmente come inquietante e oscura, costellata da bizzarri personaggi e intrisa di un orrore e una crudeltà razionalmente inesplicabili e certo fomentati dall'ignoranza e dai pregiudizi delle persone.
I bambini ritratti da Ridley non hanno nessun aggancio con gli adulti, ma finiscono inevitabilmente per assimilarne la strisciante sofferenza nevrotica: la vedova dal vestito scuro è per Seth un vampiro perché così è scritto nel libro che il padre legge in continuazione; se l'amichetto Emen, ucciso da una banda di giovani pervertiti che perlustrano incessantemente le strade su una grossa Cadillac nera, si è trasformato in un angelo del cielo perchè così dicono le mamme disperate, allora il feto che Seth ritrova abbandonato in un fienile altri non può essere che la reincarnazione di Emen, benevolo angelo dalle ali strappate, tornato a proteggere i compagni di giochi di un tempo.
Ciò che nel film lascia a bocca aperta è la straordinaria capacità fascinatoria visiva del regista (con tramonti e albe in tele a tutto schermo) e il virtuosismo della sua fotografia, che ci regala paesaggi di meravigliosa bellezza figurativa, che rievocano le migliori opere di Van Gogh e Hopper, raffigurando una natura incontaminata, assolutamente indifferente nella sua statica bellezza alla insensata stupidità e barbarie degli esseri umani. Da segnalare anche la straordinaria colonna sonora ad opera di Nick Bicat. L'opprimente mondo raffigurato da Ridley è dominato dalla solitudine e dalla perdita e per il piccolo Seth una flebile speranza sembra essere rappresentata dall'eroico ritorno del fratello maggiore Cameron (interpretato da un incisivo Viggo Mortensen) dalle "isole del Paradiso", dove a quei tempi si stavano svolgendo esperimenti con l'atomica e dove i bambini nascevano con la pelle argentata (la Reflecting Skin del titolo). La straziante storia d'amore che nascerà tra il condannato Cameron (irrimediabilmente contaminato dalle radiazioni) e la vedova Dolphin Blue spaventerà il piccolo Seth, che farà di tutto per ostacolarla, proprio per il fatto che molti indizi fanno presumere la donna, nella fantasia infantile, una vampira (ha la casa piena di attrezzi per la caccia alle balene e ricorda il marito dal suo profumo e da alcuni resti delle sue cose, che gelosamente custodisce in una scatola).
Le figure che dovrebbero proteggere Seth sono zeppe di tare e disperazione: il padre viene accusato dell'omicidio dell'amico di Seth, a causa di un precedente (era stato sorpreso con un ragazzino diciassette anni prima e si è poi sposato per coprire lo scandalo), si suicida dandosi fuoco insieme a tutto il suo distributore di benzina, la madre è una psicotica senza speranza che perde la parola, il minaccioso sceriffo senza un occhio e una mano e con l'orecchio mozzato (a causa di presunti scontri con uno squalo, un puma e feroci malviventi) sembra provenire direttamente da "Twin Peaks", così come due inquietanti gemelle vestite di scuro che si aggirano nei campi assolati facendo il verso del tacchino.
I giovani assassini pervertiti, che scorazzano in Cadillac, sono implacabili, ma sfiorano e risparmiano il giovane Seth; il quale, pur assistendo al fatto che le persone uccise abbiano tutte ricevuto poco prima di morire un passaggio dalla banda, mantiene il segreto di fronte alle morbose domande dello sceriffo. Il capo-banda in giubbotto di pelle nera che guida è, infatti, il doppio speculare di Seth stesso; costui è ciò che Seth sarà tra pochi anni, dopo tanta violenza vissuta, introiettata e incisa nell'anima. Il bambino non è mai un adulto in scala ridotta. E' un altro modo di essere, assolutamente peculiare e diversissimo. Il bambino assorbe. La violenza psicologica sommersa sedimenta gradualmente. Anche Dolphin Blue verrà caricata dalla terribile banda sulla minacciosa auto nera, e solo vedendo il fratello disperato piangere sul corpo esanime della donna, il piccolo Seth perderà per sempre la sua ingenuità e innocenza. Non gli rimarrà che fuggire, correndo tra i campi di grano, immerso in un rosso tramonto di fuoco, urlando tutta la propria sofferenza e angoscia esistenziale, sentendosi in parte responsabile degli orrori vissuti, come i pregiudizi degli abitanti gli hanno fatto credere accusandolo di essere Satana. Seth nel finale non piange, urla a squarciagola la sua totale incompatibilità con un mondo esterno allucinante, chiudendo un film capace di segnare indelebilmente la nostra anima, al tempo stesso incantandoci e sconvolgendoci. Rimarcando quanto l'ignoranza e i pregiudizi siano i principali responsabili nel generare mostri.
(dipinto di Ernst Fuchs)
"If you live long enough, some awful bad (stuff's) gonna happen to ya"
(post dolente elaborato con spunti di Flavio De Bernardis)
01/06/08
American graffiti
American Graffiti
di George Lucas (1973 USA 110')
con Richard Dreyfuss, Ron Howard, Paul Le Mat, Bo Hopkins, Harrison Ford, Charles Martin Smith
Pellicola sui giovani teen-ager dei primi anni Sessanta, ambientata in una città della provincia americana nella serata d'addio alle vacanze estive. Un tappeto sonoro ininterrotto (ci sono tutte le canzoni dell'epoca) accompagna la scorribanda notturna dei ragazzi che stanno per affrontare la vita adulta. Una febbricitante mutevolezza concerta e sconcerta un carosello di situazioni ora comiche, ora patetiche, ora grottesche, ora sentimentali...Tutti i generi sono amalgamati e fusi in una polifonia millimetricamente sincronizzata, nel cui crogiolo sembra essere il tempo musicale a dettare il tempo cinematografico. Il film ha i colori di un juke-box e il rock'n'roll ne è uno dei protagonisti, ma è il rock di transizione dei primi anni Sessanta a metà strada tra i veleni e furori ribellistici delle origini (Chuck Berry è in prigione; Elvis è nell'esercito, Buddy Holly è morto prematuramente nel 1959) e la vena genialmente commerciale successiva (Beach Boys e il surf...che adoro). Il film testimonia anche il cambiamento di look del fruitore privilegiato di tal tipo di musica; non più lo studente maudit, ribelle senza causa, aggregato alle bande di strada metropolitane degli anni Cinquanta (al cinema ricordiamo "Il Selvaggio" con Brando nel 1954, "Gioventù Bruciata" di Nick Ray nel 1955, "Il seme della violenza" di Brooks del 1953), ma il figlio di papà della middle class americana (al cinema "Grease" e "Fame", ma anche sul fronte del punk rock "Rock'n'roll High School"). I genitori e gli adulti vengono volutamente dimenticati nell'affresco creato da Lucas (volpone con eccezionale capacità di fare quattrini...), proprio per rendere il film sfacciatamente ingenuo nella sua spettacolarità da lanterna magica, così da avere successo commerciale (toccando fiabescamente le corde profonde del pubblico giovanile) e recuperare i fondi economici necessari per dare il via alla miliardaria favola planetaria chiamata "Guerre Stellari"...
Pescando nella sua adolescenza, negli ultimi dieci anni della storia del cinema e negli ultimi dieci anni della musica pop e rock (nel 1963 con "Blowin' in the wind", Bob Dylan comincerà un nuovo corso...) e grazie alle potenzialità del mezzo, Lucas crea un circo attraente, balletto e luna park insieme, una fantasmagorica "danza delle luci", una notte illuminata a giorno. La sua ellisse confina la kermesse delle immagini in uno spazio/tempo simbolico, completamente autosufficiente, designato e disegnato dall'ossessivo rincorrersi delle auto, che ruotano in cerchio, attorno ad un nucleo mitopoietico dotato di una sua inesauribile virtualità estetica. Certo è che noi Scaglie, alle fiabe di Lucas e Spielberg, preferiamo le ossessioni e le creazioni dei loro coetanei e compagni dell'epoca, Scorsese e Coppola. Comunque le qualità tecniche, estetiche e imprenditoriali ai due suddetti volponi vanno riconosciute.
di George Lucas (1973 USA 110')
con Richard Dreyfuss, Ron Howard, Paul Le Mat, Bo Hopkins, Harrison Ford, Charles Martin Smith
Pellicola sui giovani teen-ager dei primi anni Sessanta, ambientata in una città della provincia americana nella serata d'addio alle vacanze estive. Un tappeto sonoro ininterrotto (ci sono tutte le canzoni dell'epoca) accompagna la scorribanda notturna dei ragazzi che stanno per affrontare la vita adulta. Una febbricitante mutevolezza concerta e sconcerta un carosello di situazioni ora comiche, ora patetiche, ora grottesche, ora sentimentali...Tutti i generi sono amalgamati e fusi in una polifonia millimetricamente sincronizzata, nel cui crogiolo sembra essere il tempo musicale a dettare il tempo cinematografico. Il film ha i colori di un juke-box e il rock'n'roll ne è uno dei protagonisti, ma è il rock di transizione dei primi anni Sessanta a metà strada tra i veleni e furori ribellistici delle origini (Chuck Berry è in prigione; Elvis è nell'esercito, Buddy Holly è morto prematuramente nel 1959) e la vena genialmente commerciale successiva (Beach Boys e il surf...che adoro). Il film testimonia anche il cambiamento di look del fruitore privilegiato di tal tipo di musica; non più lo studente maudit, ribelle senza causa, aggregato alle bande di strada metropolitane degli anni Cinquanta (al cinema ricordiamo "Il Selvaggio" con Brando nel 1954, "Gioventù Bruciata" di Nick Ray nel 1955, "Il seme della violenza" di Brooks del 1953), ma il figlio di papà della middle class americana (al cinema "Grease" e "Fame", ma anche sul fronte del punk rock "Rock'n'roll High School"). I genitori e gli adulti vengono volutamente dimenticati nell'affresco creato da Lucas (volpone con eccezionale capacità di fare quattrini...), proprio per rendere il film sfacciatamente ingenuo nella sua spettacolarità da lanterna magica, così da avere successo commerciale (toccando fiabescamente le corde profonde del pubblico giovanile) e recuperare i fondi economici necessari per dare il via alla miliardaria favola planetaria chiamata "Guerre Stellari"...
Pescando nella sua adolescenza, negli ultimi dieci anni della storia del cinema e negli ultimi dieci anni della musica pop e rock (nel 1963 con "Blowin' in the wind", Bob Dylan comincerà un nuovo corso...) e grazie alle potenzialità del mezzo, Lucas crea un circo attraente, balletto e luna park insieme, una fantasmagorica "danza delle luci", una notte illuminata a giorno. La sua ellisse confina la kermesse delle immagini in uno spazio/tempo simbolico, completamente autosufficiente, designato e disegnato dall'ossessivo rincorrersi delle auto, che ruotano in cerchio, attorno ad un nucleo mitopoietico dotato di una sua inesauribile virtualità estetica. Certo è che noi Scaglie, alle fiabe di Lucas e Spielberg, preferiamo le ossessioni e le creazioni dei loro coetanei e compagni dell'epoca, Scorsese e Coppola. Comunque le qualità tecniche, estetiche e imprenditoriali ai due suddetti volponi vanno riconosciute.
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