Febbraio Cinema 2012 Scaglie
The Keep – La Fortezza
di Michael Mann (1983 USA/GB 96’)
La fortezza risulta essere, ad oggi, la prima e unica incursione
di Mann nel genere fantascientifico. Tratto liberamente dal bel romanzo di F.
Paul Wilson, questa pellicola è per certi versi più un film horror
ideologizzato che un vero e proprio progetto di science fiction. Scritto dallo stesso regista, nonostante
l’adattamento dal libro - o forse per questo? – difetta un po’ soprattutto a
livello di sceneggiatura, dove dialoghi mistici e momenti onirici rendono la
narrazione rarefatta. Diventato nel tempo un cult movies dei B-movies è
apprezzabile la cura per i particolari scenografici, la splendida fotografia -
costantemente immersa in una cortina di fumo biancastro - e la sapiente regia
delle sequenze di suspense. Ancora una volta è possibile scorgere la cura di
Mann per quello che è il lato umano dei suoi personaggi (anche se i tratti
psicologici dei protagonisti, in alcuni casi, risultano poco più che
abbozzati). Film complessivamente molto particolare, sperimentale e anomalo
nella commistione dei generi, La fortezza vale per almeno due sequenze, dove l’uso del ralenty accentua e “marchia” le scene, anche grazie al
contributo musicale molto “rock”.
Mercoledì 13 Febbraio ore
21.30
The Woman
The Woman
di Lucky McKee (2011 USA 111’)
Se dovessimo tracciare una linea comune tra i film
diretti da Lucky McKee, quella linea comporrebbe la parola donna. Dalla
solitaria May dell’omonimo film d’esordio alla timida entomologa protagonista di Creatura
maligna
(diretto per la serie tv Masters of horror), il regista americano, a più
riprese, ha affrontato con coraggio e notevole creatività figure femminili
complesse, riuscendo a miscelare con successo un’attenta costruzione
psicologica, sequenze splatter e una buona dose di erotismo. L’ultima pellicola
di McKee, “The woman”, sembra quindi la continuazione di un percorso ben
definito e, al contempo, la sintesi di tutto il cinema del regista americano. A
ricordarcelo c’è anche un titolo semplice e asciutto, quasi didascalico nel suo
mettere in evidenza il tema centrale del film, ovvero la figura
femminile.
Chris Cleek è un avvocato con la passione per la caccia. Con la sua
famiglia (moglie, una figlia adolescente e un figlio dodicenne), Chris vive in
una bella casa di campagna, vicina a un bel bosco e a un bel fiume, il posto
ideale per il suo hobby. Durante una battuta di caccia, Chris nota tra la
vegetazione una donna che vive in uno stato selvaggio, come un animale. Decide
così di catturarla e di riportarla alla civiltà, incatenandola nello scantinato
di casa ed obbligando la sua famiglia a contribuire all’educazione della donna.
Da questo punto in poi si scatenano alcune dinamiche che fanno esplodere le
solidi basi della famiglia Cleek: la figlia maggiore si chiude in uno stato di
mutismo, il figlio è attratto dalle nudità della ragazza, mentre Chris instaura
con lei un rapporto di violenze fisiche e sessuali, confortato dal doloroso
mutismo della moglie.
”The woman” non è un film perfetto, ma un film che
colpisce e funziona sino in fondo nella sua descrizione dell’orrore che viaggia
su due binari paralleli ma ben distinti, per poi convergere in un finale
deflagrante. Da un lato troviamo l’orrore della carne, quello delle torture che
la donna è costretta a subire: qui il gore regna sovrano e McKee dimostra di
avere un occhio brutale e rozzo nel descrivere con lucido terrore questi
momenti di pura violenza grafica.
Sull’altro binario, invece, corre senza mai
frenare, l’orrore quotidiano a cui è sottoposta la famiglia Cleek. E’ forse
banale sottolineare come le sequenze più angoscianti siano contenute nel
secondo gruppo, dove si fa notare l’attenta costruzione psicologica dei
personaggi fatta in sede di sceneggiatura. Non tutto sta in piedi come dovrebbe
e il film ha qualche calo di ritmo (anche a causa di un montaggio non sempre
perfetto), ma il turbine disturbato ed erotico in cui McKee getta lo
spettatore, ipnotizza e turba al punto giusto. La storia non procede senza
intoppi, ma è il sanguinoso finale a risollevarne le sorti: inaspettato,
doloroso, violentemente ironico e profondamente cinico, esso uccide le
speranze, distrugge l’umanità e ritorna libero e selvaggio verso l’ignota
profondità della foresta.
Mercoledì 20 Febbraio ore
21.30
Silent Souls
di Aleksei Fedorchenko (2010 Russia 75’)
Silent Souls
di Aleksei Fedorchenko (2010 Russia 75’)
“Silent Soul – Soltanto l’amore non ha fine” prende
spunto da un racconto di Aist Sergeyev, “The Buntings”, e attraverso un
‘viaggio’, quello di Miron e Aist, che devono dare l’ultimo saluto a Tanya, la
moglie di Miron, mostra allo spettatore le tradizioni di un antico popolo
ugro-finnico, i Merja, oramai assimilato dalla cultura russa da quattrocento
anni, di cui rimangono, come testimonianza tangibile del loro passato, solo i nomi
di alcuni fiumi. Tanti i temi affrontati dal regista in questa narrazione solo
all’apparenza semplice: l’elaborazione del lutto, il sopravvivere delle antiche
tradizioni, la magnificenza della natura, il viaggio come metafora del mutare
della vita, tutto avvolto da un’intensa tenerezza.Fedorchenko mostra come Miron
e il suo amico Aist, egregiamente interpretati, nonostante vivano come un
qualsiasi russo, per la cerimonia funebre di Tanya ritrovano la loro diversità,
il piacere dell’osservare le loro antiche tradizioni. Tradizioni di un popolo
che ha divinità da onorare, ma antichi rituali pagani da osservare nei momenti
cruciali della vita, come la perdita di Tanja per i due uomini. I Merja credono
intensamente nella potenza dell’Amore e nell’Acqua, quest’ultima una sorta di
‘origine’ alla quale tutti tendono a tornare, la morte per annegamento è
infatti per questa gente la conclusione più grandiosa della vita. Il regista,
da sempre dedito al riscoprire tradizioni e credenze delle etnie minori
assimilate dal popolo russo, crea, grazie anche a studi minuziosi e analisi
puntuali di reperti archeologici, un mondo parallelo in cui i due uomini si
muovono. Magari ‘facendo fumo’, cioè parlando di Tanja per tenere vivo il
ricordo, anche attraverso il racconto di dettagli della vita intima della
coppia, per molte culture decisamente sconvenienti, qui proposti con tenerezza
e nostalgia, mai con volgarità, come per omaggiare la donna e l’amore. Di
particolare intensità e poesia i ricordi di Aist, la sua infanzia, la figura
fuori dagli schemi di suo padre, la grande nostalgia che pervade ogni
fotogramma.I movimenti della macchina da presa sono inusuali e coinvolgenti, e
la fotografia (giustamente premiata alla 67. Mostra Internazionale D’Arte
Cinematografica di Venezia con l’Osella per il Miglior Contributo Tecnico alla
Fotografia) rende giustizia ad un paesaggio intenso e sconfinato, più che
cornice, coprotagonista delle vicende. Simboliche molte inquadrature, come
quelle che vedono i due uomini in macchina, ripresi da dietro, quasi a voler
indicare che anche la strada che si intravede tra loro, fa parte del racconto.
Il titolo originale “Ovsyanki”, significa zigoli, il nome della coppia di
uccellini, piccoli passerotti, che accompagna le due ‘anime silenti’ durante
l’ultimo viaggio.
Mercoledì 27 Febbraio ore
21.30
Rampage – Assassino senza colpa
di William Friedkin (1992 USA 97’)
Rampage – Assassino senza colpa
di William Friedkin (1992 USA 97’)
Rampage è uno dei film più
riusciti di William Friedkin,nonché uno dei più interessanti del panorama dei
film sul tema dei serial killer.L’autore si pone la domanda su quale sia il
limite tra la follia incontrollata dovuta all’insanità mentale e la fredda e
calcolata premeditazione del killer seriale,cercando di esplorare ancora il
male in modo profondo,e senza alcuna concessione alla spettacolarizzazione
riesce nell’intento di scuotere il cinema dal suo sonno convenzionale per
l’ennesima volta. In bilico tra thriller e legal movie, Friedkin si pone
come arbitro imparziale capace di dare la stessa attenzione al persecutore,cosi
come al killer e alle vittime,
riuscendo ad imbastire un discorso sempre
ambiguo,disturbato,malsano e non privo di simbolismi tipici del suo cinema(si
noti la somiglianza con l’esorcista per il suo climax).Nella parte che delinea
i tratti dell’assassino Friedkin riesce molto bene nell’intento di rendere un
ragazzo dal viso d’angelo(Alex McArthur) in un essere violentato nella sua
apparente innocenza da mostri mentali inespugnabili e la cui provenienza rimane
sempre ambigua,mai affrontata fino in fondo e che fa emergere la poetica del
regista che idealizza un mondo in preda a mali ai quali non si riesce a dare
una spiegazione tangibile:il rimando all’esorcista e’ forte anche da questo
punto di vista, ove regan mc neal rappresentava un angelo posseduto da forze
mostruose e insane che scuotevano lo spettatore dandogli un senso di
perdizione,di resa e sconforto,dovuto anche nella capacità espressiva del
regista di far valere fortemente la sua tesi con la sua forza espressiva, anche
reece e un serial killer che viene sezionato in modo freddo dai medici e gli
psicologi,e nonostante questo il suo male avanza in modo crudo,brutale,malsano
e che scuote lo spettatore perbenista in cerca di una tesi accomodante come il
cinema convenzionale americano (e non solo) sa ben fare,mentre l’intento di
friedkin e’ di denudare lo spettatore di ogni certezza. Due momenti in
particolare del film appaiono molto riusciti sul piano della messa in scena, il
primo in cui i poliziotti si introducono nello scantinato di reece,dove la luce
delle lampade scosse illuminano ad intermittenza gli altarini macabri
dell’assassino (magistrale),l’altra è la scena del prete aggredito nella
chiesa,forte e cruda come pochi sanno mettere in scena, ma in generale è
soprattutto la fredda normalità del killer davanti alle proprie azione a
risultare efficace.cinema capace di aprire squarci realistici con l’intento di
mettere le dita nelle piaghe della società con tesi forti. Bella la colonna
sonora di Ennio Morricone,che si sposa perfettamente in un finale di afflizione
e di toccante senso di perdita. Ingiustamente ritenuto come un’opera minore è
in realtà un cult.
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