BIOTA
Biota è il nome di un collettivo musicale statunitense composto da tredici musicisti. Prendono il nome di Mnemonists nel momento in cui incarnano la loro seconda anima, quella di collettivo di performers artistici e visuali.
Si tratta di un ensemble decisamente inedito: piano e fiati, chitarre e ukulele, Moog, batteria e percussioni esotiche, strumenti inventati da loro come il “ Biomellodrone”, e molto lavoro di tape processing per una forma musicale lontana da qualsiasi altra sperimentazione contemporanea. Opinione personale, anche al di sopra di molta. Non è musica elettronica, anche se nella loro musica vengono utilizzati Moog e metodi di processing volutamente “sporco”, concreto. Le sonorità sembrano troppo complesse per essere puramente analogiche. Non è rumorismo, non è concrete music. Non è jazz post-atomico e non è folk. Non è musica industriale. Non è ambient, non è improvvisazione, non è canzone psichedelica. Tutte queste componenti sono compresenti in un impasto complesso e stratificato, così proteiforme da sorprendere anche l'ascoltatore più smaliziato.
La loro musica è caratterizzata dalla contemporaneità di una moltitudine di traiettorie che si sviluppano indipendentemente: suonano insieme in studio, facendo evolvere composizioni tramite improvvisazioni, iterazioni, sovrapposizioni e processing con inserimento di layer ambientali. La musica dei Biota si trasforma secondo regole solo parzialmente controllate dagli autori; ogni brano pertanto è il risultato di un intento, di una linea guida, ma anche del caso. Nel celebre saggio di filosofia naturale “Il caso e la necessità”, Jacques Monod ipotizzava una doppia matrice alla base delle forme naturali: una “necessaria”, come il DNA, ed una “casuale”, che dipende cioè da una complessità inestricabile di fattori ambientali e casuali. Forse per questa analogia alla geometria della natura la musica dei Biota risulta estremamente naturale, nel senso più radicale e primitivo del termine.
L'ascoltatore perlopiù non coglie l'insieme delle traiettorie compresenti ma viene piuttosto attratto da un tema in particolare, percepisce una determinata prospettiva in uno spazio spazio musicale più ampio. Per questo, anche dopo molti ascolti ogni brano continuerà a rivelarsi nuovo e ricco di aree inesplorate.
Lo Spazio è lo strumento dominante: in questo senso la musica dei Biota è musica d'ambiente per eccellenza.
Il lavoro per strati attrae in una profondità disorientante eppure appagante e seducente, in cui convivono registri emotivi contrastanti; è frequente nella loro musica l'uso di sonorità carnevalesche in superficie, mentre nella penombra degli strati più arretrati si agita sempre qualcosa di Oscuro, uno Hide-Behind, un osservatore non visto di cui si avverte la presenza. Il risultato è una musica ineffabile ed inafferrabile, che tocca contemporaneamente corde distanti tra regalando un'esperienza d'ascolto certamente rara e suggestiva.
Una brevissima discografia: il primo album a ricevere attenzioni fu “Horde”, un esempio di aggregazione improvvisativa che stravolgeva le “regole” della scolastica Jazz. Calma apparente alla cui ombra si muovono insidie, evoluzioni e rotture nella descrizione di un vero e proprio paesaggio sonoro. La stessa prorompenza caratterizzerà anche “Bellowing Room” e “Tinct”.
Il passaggio ad una fase più complessa e strutturata è costituito da “Tumble”, fase che culminerà in quelli che considero i loro lavori più godibili, e che quindi consiglio per primi a chi volesse conoscere questo gruppo: “Almost Never”, un'unica session strumentale, e “Object Holder”. Quest'ultimo è un vero “contenitore di oggetti”, uno straordinario caleidoscopio che dopo molti anni ed innumerevoli ascolti continua a rivelare nuovi riverberi. Diviso in tre sessioni intervallate da brevi e suggestivi interludi per solo piano, contiene brani che vanno da canzoni folk-lisergiche cantate da Suzanne Lewis a brani per fisarmonica su base di rumori ambientali. E' vero anche il contrario: in un brano, riverberi di rumori di una stazione si sovrappongono alla lontana fisarmonica di un clochard, che a tratti quasi sparisce negli echi dei treni e delle voci. A tratti le sonorità si assestano su qualcosa di familiare, che però evolve rapidamente e si dissolve nella complessità stratificata sottesa da ritmi fuori sincrono.
Segue “Invisible Map” (il nome di questa rubrica di Scaglie è un modesto tributo ai Biota), eccellente album che ricalca le patterns di Object Holder adottando un linguaggio più esplicito, forse più facile. Le componenti prima amalgamate diventano meglio identificabili: folk europeo, canzone indie-dark, musica classica contemporanea. Rimangono intatte la matrice spaziale, la stratificazione e la dissonanza.
Questa è una formazione che chiunque sia interessato alla musica sperimentale dovrebbe conoscere. Un'esperienza estetica davvero unica ed accrescitiva, un'esperienza d'ascolto che può richiedere anni per rivelare tutti i suoi segreti.
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