05/09/11

Marco Ferreri

Marco Ferreri
“Il modo di produzione del cinema è l’anarchia: io spero che possa continuare ancora per un po’, che si possa continuare ancora a fare un po’ d’anarchia con il cinema” 
Ricordando il compianto e quasi dimenticato Marco, partiamo dall'omaggio di Michel Piccoli a Ferreri, letto durante la cerimonia funebre del maggio 1997:
"Il suo fascino, immenso, intelligente, scaltro, devastante; inquietante per qualcuno. I suoi sguardi, il suo ascolto, la sua capacità di conoscere gli altri, gridando il suo amore folle per il bambino e per la madre, per l'acqua, il mare, per la donna. I suoi silenzi, le sue esplosioni, la ferocità e la tenerezza erano difese per lui e per gli altri. Lottava con forza. Creatore di cinema, avrebbe potuto essere creatore di molto altro ancora, questo veterinario, questo politico, questo filosofo. Quanti ammiratori e detrattori ha sconvolto, lui, il supremo intelligente, con le sue risate che a volte sembravano pianti, inquieto forse di non sapere come vivere né come morire. Questo gigante timido sorprendeva chiunque incontrasse sul suo cammino con i suoi film, e con la sua andatura di uomo dagli occhi blu che ti fissavano per ascoltarti meglio. Catturava tutto e tutti. Tutto, con o senza macchina da presa. Bunuel non voleva mai parlare dei suoi amici morti. E' indecente, parlarne. Per me è un onore rendere omaggio a Marco; un onore e un orrore. Bunuel donava stelle ai suoi amici morti. L'astro Ferreri, la stella filante Ferreri che oggi ci dice "Lo sapevo che morivo. Lo so che sono morto." "Sta' zitto!" E aggiunge, con un filo di voce, per noi qui, intorno a lui e per Ugo e per Marcello: "Vi amo".
Scaglie vuole rendere omaggio al più provocatorio, al più iconoclasta, al più dissacrante e insieme al più disarmato e schivo dei registi italiani: il maestro Marco Ferreri. Timidissimo e aggressivo insieme, spregiudicato e sempre libero, dotato di un'intelligenza spietata e senza reticenze, detestava le formalità, l'ufficialità, la pompa delle celebrazioni pubbliche: "I festival cinematografici non servono a niente" aveva detto riferendosi alla Mostra di Venezia: "uno viene qui e si rende conto che ci si interessa di tutto tranne che dei film". Una storia, la sua, che passa da mille lavori, piazzista, giornalista, rappresentante di cineprese; una storia che passa dalla Spagna della fine degli anni Cinquanta alla Francia illuminata e che arriva a Cinecittà. Dal 1958 Marco Ferreri ha realizzato circa trenta film corrosivi e indigesti, tra i quali figurano molti capolavori "La grande abbuffata", "Break up", "Dillinger è morto", "L'ape Regina", "La donna scimmia", "L'udienza", "Chiedo asilo", "Ciao Maschio" e molti sarcastici gioielli in celluloide. Un cinema e un autore costantemente animati da una sferzante e incontenibile voglia, quasi bambinesca, di stupire, sempre e di fregarsene di tutto e tutti.
Cantore del male di vivere, incalzato e sviscerato con maniacale accanimento anche nei toni grotteschi o di parabola/apologo, oltre che affondare le proprie radici nella deflagrazione violenta di una società dei consumi onnivora e volgare, Ferreri si annida insidioso nella natura intima degli uomini, nei loro desideri più reconditi ma imprescindibili, nella loro foia autodistruttiva non più capace di generare, nella loro ossessione feticista per gli oggetti che vanno a sostituire le forme umane anche negli affetti. Attento a mostrare senza mezzi termini i monumenti di una civiltà in lenta decomposizione in cui il maschio ha perso la bussola e i personaggi muoiono perché non vogliono continuare a essere ciò che sono, perché hanno iniziato un cammino di ricerca che ogni volta appare fatale e definitivo, e tuttavia ogni volta è destinato a ricominciare. I suoi approdi non sono mai definitivi, così come le sue aperture utopiche o mitiche vengono poi sempre rovesciate. Al centro dell'universo ferreriano sembra esserci solo e unicamente il corpo: "l'unica tragica realtà di questa vita", un corpo borghese che si riempie di cibo per colmare il vuoto che lo attanaglia e lo divorerà, facendolo straripare in un pieno che costituisce l'altra faccia del vuoto. Corpo di carne ed ossa e corpo attoriale, che racchiude le contraddizioni primarie dell'esistenza, il piacere e il dolore, l'amore e l'odio, il cibo e la merda, il sesso e l'impotenza, la nascita tra il vagito e il pianto e la morte per consunzione e perdita della libido. Una volontà, quella in atto nel suo cinema, di toccare l'estremo, di raggiungere il punto di rottura, di mostrare come l'irrazionale è in grado di irrompere nella nostra vita quando meno ce lo aspettiamo e scompaginare tutto. Ma attraverso il suo viaggio regressivo nel corpo il regista arriva indubbiamente allo spirito: "ci sono due cose che dobbiamo imparare nuovamente: lo spirito religioso e la metafisica; dobbiamo rifare un lungo viaggio pieno di paura". E nel suo pauroso viaggio all'interno dell'animo umano Ferreri incontra anche tre figure meravigliose che si incrociano vicendevolmente: la donna, il bambino e l'animale. Tali sono ciò che c'era prima della Storia e ciò che rimarrà dopo la Storia, rappresentano la fisicità, la sensibilità e l'istinto libero e chimerico dell'essere umano, il futuro dell'umanità.
"Esiste qualcosa d'altro che la Storia. L'uomo è qualcosa di più che la sua storia, che la sua civiltà. Per il semplice fatto che questa civiltà è finita e che l'uomo non lo è...Io non voglio credere che il solo mezzo che ha l'uomo di conoscere se stesso sia di cercare fuori di sé, altrimenti non potrebbe che tirarne la conclusione che è già morto, come è morta la civiltà. Io non voglio identificarmi con il riflesso di me stesso, perché lo specchio è rotto. E' più probabile che l'uomo vero, che è all'interno di ciascuno di noi, sia quello che incideva il bisonte a otto zampe nelle grotte di Altamira, o la scimmia pelosa che Flaxman scopre poco prima di morire, piuttosto che il concetto d'uomo che ci trasmette la civiltà, piuttosto che questi santi, navigatori e poeti di cui l'Italia sembra così ricca. I cani vivono, le scimmie vivono grazie alla loro animalità, sicuramente non grazie alla Storia. e non vedo perché, per l'uomo, non dovrebbe essere lo stesso".
Il suo ultimo film "Nitrato d'argento" è stato un film/saggio sulle sale e gli spettatori, sugli uomini e sul cinema, senza retorica e senza facili lacrime. Raccontando la storia del pubblico del cinema, della gente che con le sue emozioni con le sue reazioni ha fatto vivere le ombre che per un secolo sono passate sugli schermi. "Le  sale splendenti del cinema erano l'unico posto in cui i poveri potessero incontrarsi, conoscersi, toccarsi, baciarsi, protetti da un'oscurità quasi mai vista nelle cattedrali o nelle sale da ballo. Negli anni della fame, tanti nel cinema ci abitavano, si lavavano, mangiavano. Tutti hanno visto la bellezza, incontrato gli uomini più arditi, le donne più seducenti. Nei cinema si sono dati appuntamento gli studenti, gli amanti e le spie, si sono rifugiati quelli che soffrivano....Nitrato d'argento è un film sul cinema, quando al cinema si mangiava, si fumava, si scopava...che me ne frega del Terzo Millennio, che ne sappiamo noi. I film resteranno, ma il cinema consumato collettivamente non ci sarà più, non lo salveranno gli effetti speciali né le multisale che si stanno costruendo ai margini delle città, come fossero campi nomadi per gli zingari. Questo è un momento di transizione, il cinema sopravvive per i vecchi come me che ho 67 anni e per le generazioni che hanno ancora il gene della memoria, nato dallo sperma versato nelle sale. Chi ricorderà il cinema ai figli dei nostri figli?".
Parole profetiche, riportate in un blog marginale per eterei fantasmi cinefili.
"Scorbutico, iracondo, buffo e basso
il maestro indiscusso dei Cahiers
cinico, torvo assai, peloso e grasso
è tornato Francesco Rabelais.
Fa ciò che vuole, libero, eccessivo
sputa sul cielo, sull'autorità
In un mondo di morti il solo vivo
E' tornato fra noi Gargantua.
Il suo occhio contempla le bassezze
e tutto ciò ch'è fuor dell'ordinario
Crollano i miti, i dogmi, le certezze
Bombardati dal gran Veterinario
La sua vision del mondo è un arabesco
di folgoranti idee, d'orrendi fatti
un poco Levi-Strauss un po' Ionesco
un po' Sigmund Freud un po' Togliatti.
Risponde col silenzio alle domande
agli attori non da' un'indicazione
eppure nel suo cinema si spande
il rigore della rivoluzione.
Ma io l'ho conosciuto quello gnomo
sono stato sulla barca di Caronte
m'ha insegnato le viscere dell'omo
e da che parte si guarda l'orizzonte.
Chiedo asilo l'ha fatto in un minuto
E vi giuro, non sono un pallonaro
riuscì a far parlare un bimbo muto
e fece recitare anche un somaro.
Un elegante, tragico giullare
che gioca con la morte e gli ingegneri
anch'io sono affogato nel suo mare
è tornato fra noi Marco Ferreri"
(poesia di Roberto Benigni)
"Ho sempre cercato percorsi nuovi per la costruzione dell'immagine e vorrei che tutto ciò determinasse sempre di più la scrittura del racconto. Vorrei inquinare le vecchie definizioni di documentario e di film di narrazione, per approdare ad un cinema che contenga aspetti dell'uno e dell'altro genere, un cinema insolito"
"Non faccio sceneggiature precise. Con gli anni, lavorando, ho pensato che la cosa fondamentale nel film è trovare l'immagine, Inutile scrivere prima. Lavoriamo sempre col metro del teatro, perché i primi critici cinematografici venivano dalla critica teatrale...Da lì è nato il mito dei testi. Il ragionamento sull'immagine lo hanno fatto in pochi, i russi..."

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