31/03/08

Distacco

La poesia dà equilibrio al vuoto del mio ventre
e all'indifferenza di Dio l'anima si abitua.
Dimmi: cosa cambia tra l'essere aurora e l'esser penombra?
A me e alla mosca interessa solo la danza.
(Alejandro Jodorowsky)

30/03/08

Russian Roulette

Russian Roulette
Pascal Comelade

"Everything I do is absolutely original, I invented it when I was little"

27/03/08

James Elliott

James Elliott

Artista inglese, che ha probabilmente più di una persona al proprio servizio con l'incarico di battere al tappeto la rete ed eliminare tutto ciò che lo riguardi,
quindi presto anche questo post...
Difficilissimo reperire qualsiasi tipo di informazione su di lui, difficile alle volte persino accedere al suo sito, che insieme a qualche saltuario book, sembra essere l'unica prova della sua esistenza.



Personaggio stravagante, educato in un istituto di suore, comincia a lavorare ancora adolescente su temi macabri raffigurando tombe croci e cimiteri.
Fortunatamente vira in fretta i suoi interessi verso l'erotismo e raggiunge il successo non ancora ventenne esponendo in una galleria della City.
Ama autodefinirsi "Artista innovatore" trovando riduttivo il termine fotografo.
Realizza immagini elaborate minuziosamente al computer con uno straordinario uso del colore, denso e brillante al punto da diventare solido e spesso come smalto.
Il resto è un'esplosione di curve, velluto, latex, rossetto, con una particolare predilezione per le supermaggiorate che, come egli stesso ha spiegato, trasforma da oggetto per facili barzellette , da ospiti per talk-show demenziali in opere d'arte assolute.
Che il sesso sia con voi.

26/03/08

Aprile al Clan Destino

Aprile Scaglie 2008

Domenica 6 ore 21.30
Blood Simple
di Joel & Ethan Coen (1984 USA 94’)
Noir d’esordio dei fratelli Coen che si crogiola nella cinefilia colta e si ammanta di sarcasmo, mostrando venature velenose condite con improvvisi scoppi di violenza. Anticipa una tendenza e uno stile cinematografico che saranno più che evidenti nel decennio successivo. Da notare come nel film il silenzio risulti più denso di significato delle parole. Da rivedere.

Martedì 8 ore 21.30
A Dirty Shame
di John Waters (2004 USA 89’)
Ormai la spazzatura è dappertutto, per cui i film iconoclasti degli anni Settanta del nostro beniamino sono diventati la nostra TV quotidiana (senza però l’ironia e la genialità di Waters), ma John Waters riesce tuttora a fare film che non vengono distribuiti perché scomodi e non riconciliati. Siamo lieti di riproporre ai soliti quattro gatti la gustosa visione dell’ultimo divertentissimo film del “Re degli Schifosi” tutto incentrato sul sesso, tornato finalmente alla sua vena più dissacratoria.

Domenica 13 ore 21.30
A cavallo della tigre
di Luigi Comencini (1961 ITA 104’)
Film assolutamente da riesumare che vede Manfredi nel suo primo ruolo drammatico in un’opera ironica, grottesca e provocatoria che mostra spietatamente l’altra faccia dell’Italia del boom economico, quella del malessere sociale fatto di sottoproletari brutti, sporchi e cattivi e baraccopoli di periferia. Un apologo sferzante sull’impossibilità di vivere nella società dell’epoca...la storia di un evaso che realizza amaramente che tutti, compreso paradossalmente anche lui, potrebbero ricavare più vantaggi da un suo ritorno in galera...nel cast anche Gian Maria Volonté e Mario Adorf.

Martedì 15 ore 21.30
Behind the Mask: the Rise of Leslie Vernon
di Scott Glosserman (2006 USA 92’)
Originale horror metacinematografico incentrato su una troupe intenta a girare un documentario su un aspirante serial killer: l’inquietante Leslie Vernon, psicopatico deciso a oscurare la fama dei protagonisti di “Venerdì 13” e “Halloween”: Jason Vorhees e Michael Myers. Come rivitalizzare ed elettrizzare tematiche trite e ritrite...in Italia ovviamente i nostri fiacchi distributori lo hanno praticamente ignorato.

Domenica 20 ore 21.30
Batman
di Leslie H. Martinson (1966 USA 105’)
Cine-vintage con scaglie di pop art cristallina....creato sull’onda dell’incredibile successo dei 120 episodi della serie televisiva...il Jolly, la Donna Gatto, l’Enigmista e il Pinguino, indissolubilmente uniti, stanno costruendo un’apparecchiatura in grado di trasformare le persone in polvere...per una serata a Gotham City. STOMP...BANG...KAPOOW!!!

Martedì 22 ore 21.30
La Sciamana
di Andrzej Zulawski (1996 POL/FRA/SVIZ 110’)
Zulawski, visionario cineasta innovatore e profondo indagatore dell’anima umana, ritorna nella Polonia repressa dopo la caduta del regime comunista per dirigere un soggetto, giudicato dalla critica ufficiale come oltraggioso verso i valori cristiani e pornografico...ne tira fuori un film depistante, allucinato affresco della Polonia contemporanea, viscerale ed estremamente intenso, in cui spicca l’indimenticabile protagonista Iwona Petri. Un professore di antropologia scopre la mummia di uno sciamano e inizia ad indagare sulle misteriose cause della sua morte, parallelamente incontra un’enigmatica ragazza con cui instaura una relazione sconvolgente...nel film aleggiano le creature dell’inconscio, ancestrali entità soprannaturali a cui affidare il proprio castigo, alla ricerca di un’agognata quiete.

Domenica 27 ore 21.30
Chopper
di Andrew Dominik (2000 Australia 94’)
Primo film dell'osannato Dominik, è l'autobiografia di Mark Brandon "Chopper" Read, il più famoso criminale australiano, un assassino spietato e conturbante, che ha astutamente utilizzato l'appeal che contorna la sua figura per diventare (in Oceania) una celebrità. Un suo uso spregiudicato e modernissimo della comunicazione attraverso i mass media e la pubblicazione di un best seller ne hanno fatto un'ambigua icona dei nostri assurdi ed oscuri tempi, paradossalmente quasi una vittima incolpevole di una società bastarda. Indimenticabile l'interpretazione dell'imponente e viscerale Eric Bana.

Martedì 29 ore 21.30
Vigilato Speciale
di Ulu Grosbard (1978 USA 114’)
Ispirato al romanzo noir dell'autore cult Edward Bunker "Come una bestia feroce" (il Mr Blue de "Le Iene"), che nel film fa una breve apparizione.
E' la storia del criminale Max Dembo (Dustin Hoffman), il quale dopo essere uscito da sei anni di prigione tenta di condurre una vita normale. Le difficoltà nel reinserimento sociale sono molteplici e soprattutto i pregiudizi che lo circondano e la durezza del giudice di sorveglianza assegnatogli non fanno altro che acuire i suoi disagi, tanto che l'unica via percorribile rimane quella del crimine. Un misconosciuto classico dei fiammeggianti anni Settanta.

For Y'ur Height Only

For Y'ur Height Only
di Eddie Nicart (1981 Filippine)

24/03/08

The Incredibly Strange Creatures Who Stopped Living and Became Mixed-Up Zombies!!?

The Incredibly Strange Creatures Who Stopped Living and Became Mixed-Up Zombies!!?
di Ray Dennis Steckler (1964 USA 82')

21/03/08

Dorothy Stratten

Dorothy Stratten

Solo vent'anni di vita per una vera e propria icona dello scorso secolo: una meteora di straordinaria bellezza che in pochi anni sconvolse il mondo. La sua immagine è assolutamente in causa nella generazione dell'ideale di bellezza dei nostri anni, una figura seminale che si è incastonata permanentemente nel desiderante inconscio collettivo: bionda, statuaria, filiforme, maggiorata, ma tutt'altro che stupida.
Di modeste origini, Dorothy fu costretta molto precocemente a guadagnarsi faticosamente da vivere, iniziando a lavorare a soli 14 anni in una malinconica tavola calda, il "Dairy Queen". Il suo aspetto era travolgente e gli squallidi avventori della bettola, tra un hot dog e una birra, non perdevano occasione per lanciarle infuocati apprezzamenti. Tra questi vi era Paul Snider, seducente ventitreenne, impresario e fotografo a tempo perso, che rimase letteralmente folgorato dalla scultorea cameriera, tanto da cominciare un tenace e instancabile corteggiamento. L'idea che ronzava nella testa di Snider, oltre a quelle scontate, era di lanciare la giovane nel patinato mondo dell'erotismo d'autore, simbolizzato in quegli anni dalle conigliette di Playboy. L'insistenza e il fascino di Snider convinsero Dorothy a posare per alcuni fulminanti scatti fotografici, che prontamente l'impresario inviò all'attenzione della rivista del rivoluzionario Hugh Hefner. L'immagine di Dorothy, contemporaneamente dotata di una purezza trasparente e di un'esplosiva fisicità, colpì i selezionatori della rivista, che in breve tempo proposero ai due di trasferirsi a Los Angeles, per lanciarla nel doràto mondo delle Playmates. Paul Snider e Dorothy, nel frattempo, avevano intrecciato un torrido rapporto di coppia, in cui il “possesso” di Snider verso Dorothy era totale, frutto forse di una rigida educazione, completamente incentrata e preoccupata del machismo sociale e sessuale. Dorothy fu eletta dai febbricitanti lettori della rivista di Hefner "Playmate dell'anno 1980" e la sua carriera conobbe una rapida ascesa con la chiamata da parte del chimerico mondo del cinema hollywoodiano. I primi film, in ruoli secondari, furono i modesti "Autumn Born" e "Americathon", in seguito Dorothy ebbe l'occasione di partecipare a episodi delle serie televisive "Buck Rogers" e "Fantasilandia", che le permisero di allargare la sua popolarità tra gli spettatori americani. Naturale a questo punto che le fosse proposto il primo ruolo da protagonista in "Galaxina" di William Sachs, mediocre film di fantascienza, assolutamente nobilitato dalla sua figura. Nel frattempo il suo rapporto con Snider, diventato suo marito, era dominato dalla smisurata gelosia di quest'ultimo, che minacciava e opprimeva la ragazza in tutti i modi possibili. L'impresario megalomane era ormai preda di una labirintica ossessione verso Dorothy, come dimostra il fatto che fece targare la propria principesca automobile con l'effige "Star 80". A questo punto successe l'inaspettato e si aprì uno spiraglio nella vita di Dorothy, rappresentato dalla possibilità di recitare nel nuovo film del celeberrimo Peter Bogdanovich "...e tutti risero".
Peter Bogdanovich era in quel momento all'apice della carriera, con alle spalle meravigliosi libri e documentari su Orson Welles, John Ford e Fritz Lang e importanti pellicole quali "Bersagli", "L'ultimo spettacolo" e "Paper Moon".
Tra i due nacque immediatamente un rapporto speciale, il regista ricorda: "era una delle persone più coraggiose che mi sia capitato di incontrare...inoltre, era velocissima nell'apprendere...capiva al volo...aveva fatto una vita d'inferno con quel marito mostruosamente abile nello sfruttarla e nell'abusare di lei, ma voleva essere un'attrice e aveva il talento per riuscirci".
Dorothy finalmente trovò così la forza di lasciare il marito e si trasferì a casa di Bogdanovich, ma Snider non mollò la presa, perseguitandola continuamente sul set, minacciandola ripetutamente e parallelamente non perdendo un istante della sua vita, grazie a complicati pedinamenti, messi in atto da arcigni investigatori privati.
La situazione pesava severamente sulla povera Dorothy e sul compagno Bogdanovich, che svela: "Dorothy era una donna bellissima, troppo bella per essere vera...era profondamente attratta da un libro su "Elephant Man", quello vero, da cui Lynch ha tratto il suo film...avevo notato che una delle ragioni per cui Dorothy si identificava con l'uomo elefante era il fatto che quando camminava per la strada tutti la guardavano. La cosa la metteva terribilmente a disagio. Le chiesi "che sensazioni ti dà?". Lei mi rispose "è come se fossi deforme"...quell'uomo bruttissimo e quella donna stupenda condividevano la sensazione di essere diversi, si sentivano entrambi a disagio, strani ed esclusi".
E il mondo non è tenero verso i diversi...lo psicotico Paul Snider, il 14 Agosto 1980, prima violenta, poi uccide Dorothy Stratten con un colpo di pistola al volto, abusa del suo cadavere, per poi suicidarsi.
Peter Bogdanovich non sarà più sé stesso, perderà una fortuna nell'autarchica e utopica distribuzione diretta di "...e tutti risero", colossale fiasco commerciale e sposerà in seguito Louise Stratten, sorella minore di Dorothy.
Con la mente rivolta a Dorothy Stratten, regalerà in seguito al mondo del cinema un autentico capolavoro quale "Mask" (in italiano "Dietro la maschera"), in cui la storia del ragazzino con la faccia di leone è un'evidente dedica alla rimpianta Dorothy Stratten.

"Da quando per la prima volta stetti seduto vicino a te nel pergolato, la prima e la più pura gioia che tu mi donasti fu di sentirmi più nobile, più grande, migliore per mezzo tuo. Immerso nella bellezza del tuo essere, docile al più lieve cenno, adorandoti e amandoti come un fanciullo, così preferivo raffigurarmi di fronte a te. E mentre ti guardavo più profondamente, questi sentimenti crescevano; quanto più io crescevo per mezzo tuo, più forza e personalità essi acquistavano, e quando intuii che mi amavi, fu loro data tutta la forza del più beato godimento; ma ora che so che sei tutt'uno con me, essi mi innalzano ad altezze che nessun mortale ha raggiunto."
(Wilhelm Von Humboldt)
(citazioni del post dall'articolo di David Grieco, "l'Unità" 31/10/2002)

20/03/08

Il Nome


Assalito dal sonno durante la guida
mi fermai sotto un albero sul bordo
della strada. Mi rannicchiai sul sedile
posteriore e mi addormentai.
Per quanto? Ore. Il buio mi raggiunse.
Mi svegliai d'un tratto e non sapevo più
chi ero. Sono del tutto conscio,
ma non serve a niente. Dove sono?
Chi sono? Sono solo una cosa che si
è appena svegliata sul sedile posteriore
di una macchina e si agita in preda
al panico come un gatto in un sacco. Chi sono?
Dopo un bel pezzo la mia vita ritorna da me.
Ritorna da me il mio nome come un angelo.
Fuori dalle mura del castello risuona uno squillo
di tromba (come nell'ouverture di Leonora) e i
passi che mi salveranno scendono rapidamente
la lunga scalinata. Sono io che arrivo! Sono io!
Ma è impossibile dimenticare quindici secondi
di battaglia nell'inferno del nulla,
a pochi metri da una strada maestra
dove le macchine ti sfrecciano accanto
con i fari accesi.
(Tomas Transtromer)

17/03/08

Il buffone di sé stesso

Perché ogni ora tanta ansia mi reca?
La vita è breve, il giorno è lungo.
E sempre il cuor brama andar via,
non so bene se verso il cielo;
ma certo via per ogni dove,
e da sé stesso vorrebbe fuggire.
Se vola al seno della più diletta
ignaro si riposa in cielo;
lo porta via la briga della vita,
e tuttavia s'afferra ad un luogo,
per quanto volle, per quanto perdette,
resta infine il buffone di sé stesso.
(Goethe)

16/03/08

Allora di sicuro non avrei più paura

Io dovrei essere solo al mondo,
io, Hamilton e nessun'altra forma di vita.
Niente sole, niente cultura, io nudo sopra un'alta roccia,
senza tempeste, senza neve,
senza banche, senza soldi,
senza tempo e senza respiro.
Allora di sicuro non avrei più paura.
(Robert Walser riadattato)

Video: surfer Laird Hamilton
Musica: "Up the beach" Jane's Addiction

13/03/08

Il coltello nell'acqua

Nóz w wodzie
di Roman Polanski (1962 POL 94')
con Leon Niemczyk, Jolanta Umecka e Zygmunt Malanowicz

Primo lungometraggio di Roman Polanski, ventinovenne, con cui ottiene una nomination all'Oscar come miglior film straniero, e consegue il Premio della Critica al Festival di Venezia nel 1962. Unico lungometraggio diretto in Polonia, prima di trasferirsi in Europa ed in seguito negli Stati Uniti, sia per motivi personali, che per la quasi unanime accoglienza decisamente negativa del film in patria, nella quale tornerà solo quarant'anni dopo per le riprese de “Il pianista”.
“Il coltello nell'acqua” è ispirato ad un viaggio di Polanski in Masuria, ambiente originario nel nord della Polonia, durante l'estate del 1954, occasione in cui scopre la vela. Da questa esperienza nasce prima un racconto che, per consiglio del direttore artistico del gruppo Kamera, diventa presto una sceneggiatura con l'aiuto dell'allora studente Jerzy Skolimowski.
Per quanto riguarda gli attori, Polanski ingaggia Leon Niemczyk (curiosità: presente in un piccolo ruolo in “Inland Empire”), attore di teatro sperimentale, per il ruolo di Andrzej, il marito; per l'autostoppista viene scelto il giovane tormentato attore Zygmunt Malanowicz, solo dopo aver a malincuore scartato l'ipotesi di interpretare questo ruolo lui stesso (si limiterà a doppiarlo) ; per Krystyna, la giovane moglie, la parte verrà affidata a Jolanda Umecka, non professionista (doppiata da un'attrice professionista), notata in una piscina di Varsavia, dopo il rifiuto di Eva Kazyzewska, attrice che aveva lavorato con Wajda.
L'equipe si stabilisce per le riprese proprio nella zona dei laghi della Masuria, collocando i mezzi su piattaforme e piccoli battelli in acqua, girando con enormi difficoltà non solo a causa del condizionamento del tempo meterologico, del lavoro con attori non tutti professionisti, dell'impossibilità di utilizzo delle scene girate in interno, ma anche per vicende personali dello stesso Polanski, che in questo periodo, tra le altre cose, perde Andrzej Munk, uno dei suoi professori e mentori, e si separa dalla moglie.
Nonostante tutto, il risultato è un film raffinato e maturo. Scorre preciso in ogni singolo dettaglio, tanto da astrarre la storia da ogni tempo ed ogni dove, per offrirla eternamente all'affresco dei recessi più oscuri delle relazioni umane. Per caricarla di soli tre personaggi, che in due giorni andranno ad interagire fino a formare un triangolo amoroso che avrà la forza di un unico organismo vivente (come lo shangai, uno dei giochi su cui proietteranno loro stessi e il loro rapporto): un giornalista maturo e benestante, la bella moglie, e un giovane autostoppista, caricato per provocazione inizialmente interna alla coppia, che sta per trascorrere il week-end in barca a vela.
Nella prima scena, in cui i due partono con una lussuosa automobile, si vede sul parabrezza anteriore il riflesso degli alberi al lato della strada percorsa, fughe evanescenti di ombre sui loro visi e sul loro silenzio, intuizione del loro rapporto e presagio di quanto sta per accadere. Appena la terza persona viene assoldata, il triangolo si forma, gli equilibri slittano ai tempi dovuti con nuda ferocia, il gioco tra i ruoli esplode, il viaggio inizia. Sono immediati il clima erotico e la tensione psicologica.
I corpi sono vivi, fieri. Corpi e volti a cui vengono dedicate lunghe inquadrature, bellissimi primi piani, singoli, a due, a tre (l'assenza di un attore non è mai prolungata), soffermandosi su tre figure all'interno di un'immagine, lavorando su tre livelli contemporaneamente. Aggiungono ai dialoghi scarni, assoluti, misurati in ogni parola (di carveriana memoria), una carnalità all'apice della propria forza, che prorompe dagli abiti con l'impeto dell'accadere, che racconta al di là delle parole che, qui, non sono tutto ciò che abbiamo. Qui c'è la trabordante sensualità ripulita e controllata di lei, che si abbandona e trasuda finalmente nel togliersi gli abiti e infine nello sciogliere i capelli, liberando una femminilità strumento e testimone; lo svagato selvaggio candido dolce biondo insolente del ragazzo; lo scarmigliato determinato piglio nervoso arrogante e virile dell'uomo.
C'è una donna al centro. Due uomini di due differenti generazioni in contrasto. Il tutto sfocia in una competizione orizzontale, diretta, carnale. E il coltello su tutti, allusione sessuale, simbolo fallico, strumento onnipresente di provocazione, di rischio, di pericolo, d'uso concreto.
Inevitabilmente affiora nell'agire dei due uomini qualcosa di primitivo, di basico, il gioco del potere virile, di conseguenza quello dell'umiliazione, dell'affermazione della propria forza nel proprio territorio. A tratti giungendo ad una regressione burlesca. A tratti sfiorando uno scambio voluttuoso, anche se sempre contenuto nella sfida, che raggiunge il suo apice proprio nel gioco che il ragazzo mostra all'uomo che consiste nel passarsi velocemente il coltello tra le dita aperte, reso ancor più sensuale dallo sguardo rivolto al viso contratto piuttosto che alla mano. Come se questo fosse il vero unico amplesso consumato. Come se questo scontro avesse in sé qualcosa di più potente e complesso rispetto a quanto o cosa sarà poi conquistato. Fino al transfert, alla trasformazione, al riconoscersi l'un l'altro e allo scambiarsi impercettibilmente.
Il ruolo della donna è il fulcro, ai due lati del quale avviene l'annusarsi, il provocarsi, il misurarsi dei due uomini. Lei, equidistante, estranea ai giochi, è la più forte tra i tre, consapevole che non ci sarà né un vinto né un vincitore, ma solo un ritorno della visione di sé stessi in tempi differenti in cui si frantumano i rimorsi o le speranze, e si accende la realtà più universale dell'uomo in quanto tale. Lei, oggetto del desiderio estremo, quello della vanità, è lo specchio tra due immagini tanto simili quanto lontane. Che si riconoscono ma che non si accettano. O che si accettano proprio nel non volersi riconoscere.
La macchina da presa entra in perfetta osmosi, caricando l'inquadratura di sensualità, alternando profondità di campo a primi piani, lavorando sempre sull'estetica drammatica delle linee di fuga verticali (le corde, l'albero) ed orizzontali (la barca, l'orizzonte, i tronchi galleggianti), che costruiscono la trama all'interno della quale agire. In cui entrare inevitabilmente attraverso tre punti di vista, come la differente angolazione della parte visibile che mostra il ragazzo giocando a guardare il proprio dito puntato al cielo ora chiudendo un occhio, ora chiudendo l'altro.
La scelta del bianco e nero e la fotografia sono impeccabili: “L'ombra è teatro di prodigi”, recita il giovane. Questi scuri e chiari, senza nessuna immagine che evochi un colore che non giunga dalla natura, come l'azzurro del cielo e del mare, che non appartenga già alla nostra memoria, quindi senza nessuna leziosità sottintesa, scarnificano la scena. Così, saranno esattamente la sensualità di corpi e l'asciutta interazione a riempire di colore intenso e saturo tutte le spaccature.
Necessaria anche la scelta della barca a vela, luogo angusto che implica “nervi saldi e disciplina”, un'unione forzosa di stretto contatto, una puntualità e ritualità dei gesti, un'assegnazione di ruoli, una cambio d'abito, un tempo scandito dal tempo meterologico, giorno o notte, vento o non vento, sole o pioggia, fuori dalla percezione quotidiana, dentro invece ad un accadere con regole sue proprie. Con dinamiche anche relazionali nel movimento o nella stasi in barca assolutamente differenti rispetto alla terraferma.
Inclusa in ciò ovviamente anche la scelta dell'acqua, atalante, elemento materno e madre, su cui scivolare o affondare, (“sull'acqua è impossibile tracciare una retta tra due punti”, afferma Gilles Deleuze). Memorabile l'inquadratura delle gambe del ragazzo che corrono sull'acqua, primi giocosi e sfrontati passi ad accumulare del fatto rispetto al non fatto.
Imprescindibile, liberatorio ed emozionante il sassofono di Bert Rosengrend sulle magnifiche composizioni di Krzystof Komeda, che, alternandosi ai silenzi, si lega alle immagini e ai tre corpi indissolubilmente, ora giocoso, ora suadente, ora pieno di tiro, ora rabbioso. Il suono è liquido, senza l'arroganza di un ulteriore elemento, ed ha la forza di strappare le immagini dagli occhi, per ricollocarle in una zona della memoria, il cui unico accesso ha come chiave l'udito. Senza dimenticare che nella Polonia dell'epoca il jazz ancora non era accettato. Questo restituisce una profonda sovversione anche nelle scene. Il sassofono veleggia.
Appena il triangolo si scioglie definitivamente, la relazione tra i coniugi (ma anche lo spettatore) vacilla, non per demolizione delle certezze della coppia o per il vacillare del loro complesso rapporto, quanto per l'improvvisa assenza di contrappeso esercitata dal ragazzo. Il film è circolare, si chiude apparentemente come inizia, anche se la macchina da presa lascia guardare solo attraverso un campo lungo da dietro. Sulla terraferma abiti normali, un ricomporsi rituale, un ritorno allo stress, ad una consapevole complicità menzognera, con qualcosa di cambiato, con la consapevolezza di ciò che è andato perduto. Camminare non è veleggiare. Bivio. Dove andiamo? Nell'ultima immagine l'auto ferma ad un bivio sembra una barca arenata in una secca d'asfalto.
(Post ad opera di Bascka)

12/03/08

I bassifondi di San Francisco

Knock on Any Door
di Nicholas Ray (1949 USA 100')
con Humphrey Bogart, John Derek,
George MacReady,Susan Perry,Allene Roberts.

Ottimo film giudiziario che vede un avvocato affermato, interpretato dal sempre magistrale Bogart, difendere un giovane accusato di omicidio. Nel film si respira tutto il ribellismo che sarà proprio dei giovani degli anni Cinquanta, esemplificato in una battuta detta dall'accusato Nick "Faccia d'angelo" : "Vivi di corsa, muori giovane e lascia un bel cadavere". E' questa la filosofia di vita di questo ragazzo cresciuto nei bassifondi, vittima della sfortuna e della società...il film è un atto d'accusa contro un'intera società, principale responsabile delle disgrazie di Nick (notare l'omonimia col regista): i bassifondi, la povertà, la morte del padre in prigione, il gioco d'azzardo, ma soprattutto l'esperienza disumana del riformatorio.
La società è incapace di re-integrare il giovane, molto più facile reprimerlo ed eliminarlo. Solo chi, come l'avvocato interpretato da Bogart, ha provato l'esperienza dei bassifondi è in grado di capire questo ragazzo e cerca istintivamente di aiutarlo, ma il segno lasciato dai bassifondi e dall'atteggiamento violento della società è indelebile, non ci sono vie d'uscita, se non in rari casi (per esempio l'avvocato).
Laddove John Ford parla di famiglia, tradizione, codici morali; Nicholas Ray tratta di emarginati, losers e di una società inesorabile e spietata. Proprio per questo noi di Scaglie abbiamo sempre urlato a squarciagola: Abbasso John Ford, Viva Nicholas Ray! (vedere "Johnny Guitar" raffrontato ad "Ombre Rosse" per conferma...)

"Nicholas Raymond Kienzle è un autore nel senso che ci piace dare a questa parola. Tutti i suoi film raccontano una stessa storia: quella di un violento che vorrebbe cessare di esserlo...i suoi rapporti con una donna moralmente più forte di lui perchè il duro, protagonista dei film di Ray, è un debole, un uomo bambino, quando non è semplicemente un bambino. Sempre la solitudine morale, sempre gente disposta a braccarti, linciarti."
(François Truffaut)
post dedicato a Ricky, ora avvocato...

La camera verde

La chambre verte
di François Truffaut (1978 FRA 94')
con François Truffaut, Nathalie Baye, Jean Dastè, Serge Rosseau.

Liberamente ispirato a tre novelle di Henry James (L'Autel des Morts, Les Amis des amis, La Bête dans la jungle), "la chambre verte" è il film più cupo e crepuscolare di Truffaut. A discapito di quanto potrebbe apparire ad una lettura superficiale del film, lo stesso regista ha avuto, però, modo di sottolineare che il tema portante de La camera verde «non è il culto della morte. È effettivamente un'estensione dell'amore della gente che abbiamo conosciuto e non c'è più; è l'idea che questa gente continui a essere presente. Io non aderisco completamente al personaggio e spesso mi capita di criticarlo. È un mezzo pazzo con un'idea fissa, ma ciò che conta è che egli rifiuta l'oblio. Per me è importante questo rifiuto. [...] Io sono contro l'oblio, che è una frivolezza enorme [...]. È una cosa che non sopporto.»
Più che la fedeltà alla morte, il soggetto del film è, dunque, la fedeltà pura e semplice, «la lotta dell'assoluto e del relativo, del provvisorio e del definitivo. L'oblio progressivo corrisponde alla legge della vita. [...] Tutto ciò che è di dominio affettivo reclama l'assoluto. Il bambino vuole la madre per la vita; gli innamorati vogliono amarsi per la vita; tutto in noi reclama il definitivo, mentre la vita ci insegna il provvisorio. Mi chiedo se ciò che c'è di più importante al mondo non sia il momento in cui si vacilla, in cui ci si rende conto, per esempio, che i nostri bambini contano più dei nostri genitori... Più si va avanti e più ci conviene dimenticare i nostri morti, perchè dimenticandoli dimentichiamo la nostra stessa morte. Proust ha detto: «Non è perchè gli altri sono morti che il nostro affetto per loro si affievolisce, è perchè moriamo noi stessi...» Sì, il vero distacco sta lì, in questa necessità, per sopravvivere, di accettare il provvisorio.»
«Nella Nuit américaine c'era l'esaltazione del lavoro dei cineasti, qui c'è l'esaltazione delle persone che hanno contato. È un po' come una dichiarazione d'amore. Non è nè deprimente, nè morboso, nè triste. È l'idea che la forza del ricordo, della fedeltà e delle idee fisse sia più forte del presente, dell'attualità. Non staccarsi dalla gente di cui non si parla più: continuare a viverci insieme, se la si ama. Io mi rifiuto di dimenticare.»
Truffaut crea, così, un luogo simbolico dove raccogliere coloro che sono stati gli ispiratori della sua arte: Henry James, Marcel Proust, Henry-Pierre Roché, Jean Cocteau (che insieme a Bazin ha così lucidamente sottolineato il rapporto tra il cinema e la morte), Oscar Wilde, Maurice Jaubert - autore del "Concert flamand", registrato prima di girare e sul cui ritmo è stata sincronizzata tutta l'azione, movimenti della macchina da presa compresi, culminando nell'emozionante finale -, i ritratti dei quali sono riconoscibili dapprima nella camera verde, e poi nella cappella restaurata.
Truffaut dedica all'amore "maggiore attenzione, un rispetto quasi ossessivo: mostra le cose che ama, vuole che acquistino il fascino che hanno per lui, costringe anche la morte [...] a partecipare a questa sua sublimazione dell'amore. La sua ritualità ci coinvolge, ci sconvolge. A seguirlo si finisce col creare un legame che lo schermo non riesce a trattenere. I suoi film riescono a farcelo conoscere senza mediazione (scompare l'arte, scompare il muro odioso della critica). È un caro amico. Succede così che, di passaggio a Parigi, si finisca per l'essere richiamati e, verso Montmartre, ci si accinga a salire sul colle, ad entrare nello spazio chiuso e, senza nessuna religione che ci sorregga, a fissare per un po' la nera e semplicissima lapide di un uomo che, come un amico fraterno, riposa a pochi metri da noi".
Perchè anche noi, insieme a lui, ci ostiniamo a rifiutiare l'oblio.

«Ho appena compiuto quarantasei anni e comincio già a essere circondato di morti. Un film come "Tirate sul pianista"... la metà degli attori che vi hanno preso parte se n'è andata. Ogni tanto le persone che ho perso mi mancano, come se fossero appena morte. Jean Cocteau, per esempio. Allora prendo uno dei suoi dischi e lo ascolto...Ascolto la sua voce, la mattina, in bagno. Mi manca.»
(F. Truffaut, 1978)
(post con citazione da Cineforum 350 di "Il caro amico che riposa a Montmartre" di Demetrio Salvi e estratti di interviste di François Truffaut sul cinema)

11/03/08

Klaus Kinski/Jesus


"Non ho interpretato un film su Hitler perchè, a parte il fatto che non penso sia molto interessante, sarei stato assai meglio di Adolf Hitler. Avrei recitato i suoi discorsi molto meglio di lui...questo è sicuro."
(Klaus Kinski)

Taxus Baccata


Il taxus baccata, noto comunemente come tasso, è un albero sempreverde di incredibile longevità, dotato di una chioma ricca di foglie aghiformi verdi scure, di una durissima corteccia rossiccia e di frutti dalla forma di bacche, chiamati arilli. Le foglie scintillanti e cerose sono disposte a spirale, avvolgenti lunghi germogli. Il tasso ha una caratteristica inquietante: tutte le sue parti, esclusi i rossi arilli, sono terribilmente velenose. Ad alcuni animali selvatici piace nutrirsi col tasso, specie i cervi sono ghiotti delle sue parti ed è come se raggiungessero una sorta di irresistibile trance stimolante attraverso gli alcaloidi contenuti nella pianta. Per gli animali domestici e per noi esseri umani invece il tasso è drammaticamente mortale (tanto che viene stimato che un grammo di pianta per chilo di peso corporeo sia già sufficiente come quantità letale per un essere umano). Gli alcaloidi del tasso producono aritmie e dispnea, fino a portare in poche ore portano alla paralisi muscolare, al coma e alla morte. Gli antichi già lo sapevano e il veleno del tasso era usato per intingere la punta delle frecce sia da greci che da romani. La capacità di provocare violente contrazioni addominali lo fece diventare un metodo abortivo frequentemente utilizzato nel tardo Medioevo, con lo spaventoso effetto collaterale di portare spesso alla morte anche della gestante.
Il tasso è in genere un albero ermafrodita: i fiori maschili sono piccole strutture globulari situate singolarmente sull'ascella della foglia, sotto i rami dell'anno precedente, mentre i fiori femminili, sistemati in una posizione simile, sono fiorellini verdi che si espandono dopo l'impollinazione. Un duro seme verde oliva è circondato da un arillo, polposo e dolce, che ricorda una tazza aperta.
Il tronco del tasso ha la capacità di riprodurre molto facilmente nuovi germogli dopo essere stato tagliato o danneggiato, e quelli che originano dalle radici rappresentano un metodo di riproduzione molto efficace. Il tasso ha anche un'altra anomala modalità di riproduzione, chiamata margottatura: un ramo di qualsiasi dimensione può allungarsi progressivamente verso il terreno e dotarsi di lievitanti radici. La funzione di questo processo potrebbe essere quella di fornire un sostegno ai rami in continua crescita, ma in realtà la nuova radice produce anche giovani germogli, che si dirigono selvaggiamente verso l'alto con l'obiettivo di trasformarsi essi stessi in nuovi palpitanti alberi. Questo accade naturalmente in tutti i sensi e così intorno alla matrice dell'albero madre finiscono per formarsi colonie di nuovi alberi, generalmente considerati dai botanici come individui separati, ma che in realtà fanno parte della stessa creatura vivente originaria. Questo processo può continuare indefinitamente, fino a tramutare l'albero in un vero e proprio bosco rigoglioso e sottilmente pulsante. Il tasso/madre progressivamente invecchia e il nucleo centrale del suo tronco lentamente marcisce, ma contemporaneamente strati di nuovo tessuto inglobano il vecchio legno morto, proteggendolo e rinforzandolo. Perciò il tasso ha anche la straordinaria capacità di rinnovarsi dall'esterno all'interno. La sua crescita è sincrona con il suo disfacimento: raggiunto il disfacimento completo, il tasso può così risorgere. Il tasso che noi vediamo è probabile che non sia la prima incarnazione di una radice assai più antica. Non ci sono motivi in natura, eccetto gli esseri umani, perchè un tasso debba morire. Il tasso può raggiungere virtualmente l'eternità, attualmente il tasso più vecchio conosciuto dal genere umano, il cui seme deve essere germinato nella tundra post-glaciale circa 8000 anni fa, si trova a Fortingall (Tayside) in Scozia. Il tasso è in tutte le culture primordiali identificato con l'albero della vita. Per motivi a noi tuttora sconosciuti, gli uomini della cultura megalitica, che costruirono Newgrange, Stonehenge e Avebury, volevano che i tassi stessero a nord dei loro tumuli sepolcrali. Anche nei siti celtici il tasso era sempre presente...
La tintura tradizionale per il bindhi, il piccolo punto sulla fronte usato in India, era in origine ricavata dalla corteccia del tasso. Tale punto ha grande valenza spirituale perchè individua il nostro "terzo occhio", un potente centro energetico cui sono associati stati di coscienza elevati. E' abbastanza probabile che gli antichi saggi indiani sapessero come preparare con gli alcaloidi di questo albero una "pozione magica" in grado di alterare lo stato di coscienza dei loro adepti. La parola "tossico", d'altronde, sembra che etimologicamente derivi dal nome del tasso.
Anche nella medicina occidentale il tasso ha acquistato grande fama grazie alle sue proprietà antitumorali e la sostanza ricavata dalla pianta, il taxol, ha permesso a molti esseri umani di sopravvivere alla malattia.
Quando vedete un tasso pensateci...

"In qualsiasi momento, anche senza contatto fisico, potremmo raggiungere ogni singola mente umana. I nostri insegnamenti sugli strati più profondi della realtà potrebbero farvi aprire gli occhi e fermare il grande massacro. Avremmo la capacità di passare su di voi come una tempesta, ma non lo faremo, perchè ci è stato detto di rispettare la libera volontà degli uomini. Ma voi potete venire e domandare."
Taxus Baccata di Fortingall
(post elaborato con gli spunti del folgorante libro di Fred Hageneder "Lo spirito degli alberi")

10/03/08

Rapporto Confidenziale

«Andare al cinema è come mangiare o cacare,
è un atto fisiologico, è guerriglia urbana.»
(Marco Ferreri)

E' uscito il quarto numero (considerando anche il numero Zero) della rivista digitale "Rapporto Confidenziale" con articoli sui fratelli Maysles, su Ken Jacobs, su Diabolik, sul "Demone sotto la pelle", sui film della AIP, su Peter Greenaway, sull'architettura nel cinema...ho scritto poco in questo periodo perchè ho letto molto...Gloria e Vita ad Alessio (qui) e Roberto (qui), anime danzanti ed ideatori della rivista scaricabile gratuitamente a questo indirizzo: http://confidenziale.wordpress.com
Assolutamente da non perdere anche i numeri precedenti...

Das Ich - Fieber

Fieber
Das Ich

http://www.youtube.com/watch?v=oYDSakiq21k

06/03/08

Necron

Necron

Per trovare l’estremo alle volte non serve andar lontano.
Possono essere sufficienti 14 albi a fumetti, disegnati da Magnus, su testi di una fantomatica Ilaria Volpe, secondo alcuni pseudonimo dell’artista stesso e pubblicati inizialmente in albi di formato economico.
La dottoressa Frieda Boher, arrapante e straordinaria biologa, dal cuore freddo come i cadaveri dai quali solo trae godimento, lavora in un centro studi per trapianti, e mentre regolarmente respinge le avances dei suoi colleghi uomini dal sangue ancora caldo, trafuga organi e membra, tra cui le braccia di un gigante, il pene di un superdotato, il cervello di un sottosviluppato…(”quello di uno scrittore di fumetti dell’orrore andrà benissimo”) che poi mette insieme per creare Necron, mostro dai testicoli elettrici, vorace fino al cannibalismo e costantemente eccitato, che usa come strumento per soddisfare le proprie voglie di necrofilia e per le sue malefatte criminose.
Frieda addestra la sua creatura all’obbedienza, punendo a suon di frustate i suoi frequenti colpi di testa e concedendogli di leccarla o di possederla in caso di premio…o in caso di voglia della padrona stessa.


In questa rivisitazione proto-pulp e femminista del Frankestein di Mary Shelley, che mantiene costante il debito con la sua ispiratrice fino alla ribellione finale di Necron che si unisce ad altri reietti e abbandona Frida al proprio tragico destino, Magnus riesce nel piccolo miracolo di ammantare di grottesco e di allegro erotismo gli orrori più indicibili e i crimini più efferati di cui si macchieranno i due antieroi.

"Se l'unione di due amanti è effetto di un travolgimento passionale, l'unione stessa richiamerà la morte, come desiderio di omicidio o di suicidio...Nessuno può negare che un elemento essenziale dell'eccitazione sia il sentimento di crollo o naufragio...un movimento di perdita che si muta presto in tragedia e si arresta solo nella morte...poichè la violenza è smarrimento, e lo smarrimento si identifica con le furie voluttuose che la violenza ci procura."
George Bataille, L' Erotismo.

Che il sesso sia con voi.


Esta Noite Encarnarei no Teu Cadáver

Esta Noite Encarnarei no Teu Cadáver
di José Mojica Marins (1967 BRA 107')

"Delirios de um Anormal":http://www.youtube.com/watch?v=Wy2CkFn-UgU

03/03/08

Zero in Condotta

Zéro de conduite
di Jean Vigo (1933 FRA 44')
Con Jean Dasté, Robert Le Flon, Delphine, Du Verron,
Louise Berger, Michelle Fagard, Louis Lefèbvre

"Col pretesto che il cinema è nato ieri, noi ce ne serviamo infantilmente nello stesso modo in cui un papà balbetta per farsi comprendere dal suo bimbo. Dirigersi verso un cinema sociale è consentire di svolgere una miriade di soggetti che l'attualità consentirebbe di rimuovere di continuo. E' liberarsi di un paio di labbra che mettono tremila metri per unirsi e quasi altrettanti per staccarsi. Andare verso il cinema sociale vuol dire essere d'accordo, pretendere, permettere, che il cinema dica qualcosa e svegli altre eco oltre ai rutti di quei «Signore e Signori!» che al cinema ci vanno per digerire." (Jean Vigo)

"Zero in Condotta" è un film incentrato sulla vita in collegio, come metafora della società borghese, microcosmo oppressivo in cui ai ragazzi viene tolta ogni minima libertà e represse con ogni mezzo fantasia e immaginazione. Nel film viene indagato profondamente e poeticamente, fino alle radici primigenie, il rapporto conflittuale tra libertà e autorità e lo stupefacente risultato finale è insieme un'aspra critica alla società dell'epoca e un tenero ritratto dell'infanzia.
Vigo ne firma la regia, il soggetto, la sceneggiatura, i dialoghi e il montaggio, prendendo parte anche all'allestimento delle scenografie, svelandosi grazie a questo film e al leggendario "Atalante" come uno degli autori più importanti del cinema di tutti i tempi e parallelamente come uno dei più implacabili demistificatori della nostra insensata Società dell'Apparenza. Il giovane Jean, peraltro, fu allevato nelle stanze convulse e fumose dei dibattiti politici, imparando a giocare a nascondino nei cortili della prigione durante le visite al padre incarcerato. Una vita breve e tumultuosa la sua, segnata dal tragico destino del padre, popolare militante anarchico (conosciuto col nome d'arte di Miguel Almereyda) con innumerevoli coinvolgimenti in avvenimenti di rilievo nazionale francese. Nella sua breve carriera (stroncato dalla tisi a soli 29 anni) Jean mostrerà l'autobiografia (egli stesso trascorse un difficile periodo di segregazione in collegio), come radice creativa di un fiammeggiante operare artistico, posto sotto il segno dell'insofferenza, della liberazione e della riconquista della memoria.
"Zero in Condotta" è uno dei più folgoranti inni alla libertà che ci ha regalato la Settima Arte: attraverso la storia di quattro ragazzi che insorgono pacificamente (il clou della loro battaglia è una rivolta a colpi di cuscino...) contro la tronfia società oppressiva degli adulti, Vigo raggiunge momenti toccanti, surreali e poetici e parallelamente mette selvaggiamente a nudo la vacuità delle istituzioni e dei cerimoniali. Le autorità, nel film, sono impersonate da esangui fantocci, l'odioso preside della scuola è un nano astruso e tutti gli adulti che compaiono nel film sono praticamente muti, eccetto che nelle occasioni ufficiali in cui non fanno altro che ripetere stanche formule, secondo imperturbabili rituali mortuari ai quali tenacemente si affidano per non scomparire.
Il cinema dell'infanzia creativa e ribelle contro la disciplina della società borghese ha origine da questo film, lo stendardo del pensiero libero vi campeggia, incredibilmente affrancato dalle pastoie della politica, dalle granitiche certezze della cultura ufficiale e dagli incrollabili dogmi di fede.
"Zero in condotta", all'epoca, rimase in programmazione poche settimane, con scarso successo di pubblico e di critica, successivamente venne bollato come film anti-francese (accusato di ferocità e crudeltà alla morale pubblica e verso le istituzioni) e venne sottoposto a pesanti tagli sia da parte della produzione che della censura, per poi infine scomparire dal circuito delle sale per trent'anni.
Ma a distanza di più di settanta anni la sua portata innovativa rimane lampante, anche perchè è uno di quei film che riesce a comunicare sia col nostro cervello che col nostro cuore.

"Lo spirito di questo film, la sua ferocia e la sua gaiezza, la totale assenza di una ben costruita diagnosi costruttiva e di prescrizione, l'enorme forza liberatrice del suo quasi nichilismo, il suo humour, la sua crudezza, la sua gentilezza, criminalità e astuzia costituiscono una convincente espressione rivoluzionaria." (James Agee)
"...con Vigo l'utopia entra nella vita quotidiana e la quotidianità diventa luogo o ponte verso quell'età della gioia che esiste solo negli occhi dei bambini scalzi nel sole, nei cuori coperti di croste dei folli o nelle lacrime, amare, dei "quasi adatti" che hanno fatto del loro tetto un pugno di stelle."
(Pino Bertelli, critico luminescente a cui devo questo post e di cui consiglio tutti i libri)

01/03/08

Frankenstein meets the Spacemonster

Frankenstein meets the Spacemonster
di Robert Gaffney (1965 USA 79')